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Due spettacoli teatrali offrono l’occasione per una riflessione sui nostri registri comunicativi.

Dicono i cultori della neurolinguistica che, nella comunicazione fra umani, solo il 17% passa per la parola, tutto il resto lo trasmettiamo con il linguaggio non verbale: il movimento, il gesto, l’espressione del viso, la postura, l’intonazione. La nostra educazione di stampo ancora, idealista, gentiliano, non si occupa di tutto ciò, anche se, a livello inconsapevole, siamo fortemente influenzati dal modo di porgere del nostro interlocutore. Per non parlare del carisma, della efficacia comunicativa che riconosciamo in un oratore o in un attore: valutazione che, di solito non nasce da un’analisi consapevole degli elementi non verbali della sua comunicazione, ma ne è tuttavia fortemente influenzata.
Per una strana congiunzione, a fine febbraio, nel giro di pochi giorni in Milano sono andati in scena due spettacoli nei quali la comunicazione non verbale, pur a titolo diverso, aveva un ruolo essenziale
Io amo Helen_ultimo movimento, di Tangram Teatro Torino, visto al Verdi, si ispira alla storia di Helen Keller, divenuta sorda a cieca a pochi mesi. Il lavoro, scritto diretto e interpretato da Silvia Battaglio, è focalizzato principalmente sul rapporto che Anne Sullivan, la maestra di Helen, stabilisce faticosamente con lei, ed accenna solo di passaggio alla sua vita da adulta e all’intensa, ricca attività culturale e sociale cui si sarebbe dedicata.
La collocazione storica del personaggio (nata negli Stati Uniti nel 1880) è suggerita da scarni elementi scenografici, come un catino e una brocca sorretti da un telaio di ferro d’antan, ma i costumi delle due interpreti (con lei, nella parte di Anne, c’è Patrizia Pozzi) sono di foggia contemporanea.
Silvia Battaglio, danzatrice di formazione, si concentra invece nella creazione di una tessitura gestuale che elabora la LIS, la Lingua Italiana dei Segni. La forzatura è evidente: per la sordo-cieca Helen quei segni non sono intelligibili, ma l’interprete li trasforma in una partitura coreutica di grande eleganza.
Con Girotondo.com Bruno Fornasari, riscrive con brio e intelligenza l’opera di Arthur Schnitzler. Ricalcandone lo schema e trasponendo le situazioni nella contemporaneità, costruisce sei variazioni sul tema della sessualità, alternate a sapide notazioni storiche o sociologiche. Gli attori, Alice Redini e Tommaso Amadio caratterizzano con brillantezza personaggi diversissimi, senza mai cadere nella macchietta, nella banalità, nella volgarità.
Ma il principale elemento di novità della ripresa dello spettacolo al Filodrammatici è stata la serata dedicata a un pubblico di sordi dove, pur da soggetto udente, la mia attenzione è stata interamente catturata da Kiran ed Emanuela, le due bravissime operatrici che, alternandosi a un lato del proscenio, traducevano puntualmente nella LIS ogni singola battuta.
Un incontro con le due interpreti mi ha aperto impensabili scenari sulla natura, sulle possibilità comunicative e semantiche di quello strumento che, lungi dall’essere una lingua artificiale, inventata a tavolino è, come loro tengono a precisare, “una lingua espressione della comunità dei sordi italiani segnanti”, che come tale vorrebbe essere riconosciuta. Difatti, malgrado questo sia previsto dalla carta dei diritti dei disabili emanata dall’ONU, in Italia ciò non è ancora avvenuto. Ma ciò aprirebbe un discorso, ancorché importantissimo, che ci porterebbe lontano.
In questa sede, pur sapendo di rischiare l’accusa di cinismo, vorrei sottolineare l’incredibile valenza espressiva e teatrale della LIS, la corrente di complicità che correva fra quelle due instancabili figure in nero e il loro pubblico, la duttilità della mimica facciale, la ricchezza della gestualità, che in tanti momenti rendeva comprensibile anche all’alloglotta le battute del testo (comprese le frequenti espressioni coprolaliche). E quel dato del 83% di non verbale citato all’inizio, appariva una realtà evidente.
E mi spingerei fino a proporre che la LIS entrasse nella formazione degli attori, non solo per motivi sociali (la prospettiva utopica, ma non peregrina, di produzioni mirate ad una platea di sordi), ma proprio in funzione di arricchimento del bagaglio professionale dei teatranti.