Riflessioni in margine ad uno spettacolo visto al Teatro Officina

Ambiguità è una parola da riabilitare. Vuol dire polisemia, vuol dire rifiuto di una visione miope e semplicistica della realtà, non in grado di cogliere la ricchezza del chiaroscuro, del non definito, del contraddittorio. Ed è il termine che meglio sintetizza lo spettacolo Democrazia, di Andrea Balzola, con la regia di Maria Arena.

Comincerei dall’interprete, Emanuela Villagrossi, una donna, per fortuna sua, lontana anni luce dagli schemi estetici omologanti che i mass media cercano di imporre all’immaginario collettivo: un viso che si direbbe piuttosto intagliato che modellato, dotato di una incredibile dinamica espressiva; così come la figura, asciutta, ma come vibrante di un’energia erotica sotto traccia. Questa attrice, dal fascino intrigante e – nella accezione sopra detta – appunto ambiguo, interpreta da sola i ruoli di due sorelle, in un dialogo nel quale inizialmente lo spettatore, pur guidato da suggestive modulazioni vocali, fatica a identificare e distinguere i due personaggi, che assumono con più evidenza la loro identità solo in progress, col dipanarsi di segni scenografici e registici più espliciti, per tornare infine a confondersi nuovamente.

Ma anche il testo gioca sull’ambiguità, sull’indefinito, fin dalla didascalia iniziale, letta dall’attrice: “Italia, una città del Centro-Nord, una pianura di cemento e tecnologia nell’era della connessione globale, della solitudine affollata; molti anni dopo una guerra civile”. La storiografia ha preso da tempo la distanze dalla definizione di “guerra civile” per gli eventi bellici seguiti all’8 settembre 1943, ma sarebbe fuori luogo tacciare di revisionismo l’autore, che sembra invece riproporre in tal modo l’archetipo sotteso (si parva licet componere magnis) alla vicenda di Eteocle e Polinice, sull’arbitrarietà di un manicheo discrimine fra infami ed eroi; fino a spingersi su un terreno ancor più delicato, suggerendoci che la memoria medesima non è rigida e immutabile, ma plastica.

Per chi trovasse poco convincenti (o ambigue) queste osservazioni, è forse il caso di dire, più esplicitamente che, anche e specialmente per le riflessioni che induce, lo spettacolo è da vedere.

Lumpatius Vagabundus