Quando l’Occidente e l’Oriente si incontrano

L’incontro tra Giorgio Strehler e Mozart diede vita, nel 1972, ad una memorabile versione scaligera del Die Entführung aus dem Serail. A vent’anni dalla scomparsa del regista ritroviamo questo capolavoro impreziosito dalle scenografie di Luciano Damiani

Ritrovare la regia di Strehler e le scene di Damiani in questo Die Entführung aus dem Serail scaligero assume un’importanza che trascende il piacere sentimentale e nostalgico del puro recupero storico. Al di là del mito e della storia vi è lo svolgersi dell’hic et nunc. E quello che abbiamo visto alla Scala ci ha profondamente commossi per la prestazione eccellente dei cantanti, per una direzione sensibile e puntuale e per un trattamento estetico che non risente del tempo che trascorre. Da prendere come esempio di come una doppia ricorrenza (quella dei venti anni dalla scomparsa del regista e dei dieci anni di quella dello scenografo), possa evitare il rischio di un’operazione nostalgica per donarsi completamente all’insistenza di un capolavoro nel capolavoro.

Il Serraglio è un’opera singolare, perfetta realizzazione dell’assorbimento dell’opera italiana da parte di quella tedesca senza, per questo motivo, incorrere nel rischio di un tradimento. Si tratta, infatti, di un passaggio importante dell’opera di area germanica che si afferma in quanto cultura matura per rivaleggiare con la nostra tradizione. Concepita nel 1781 su libretto di Johann Gottlieb Stephanie da un Mozart venticinquenne appena giunto a Vienna, l’opera sarà rappresentata il 16 luglio 1782 nel Burgtheater della stessa città riscuotendo un grande successo.

La direzione di Zubin Mehta ci è apparsa attentissima e, nonostante la pienezza della partitura mozartiana, ha donato alla parte musica una leggiadria rara, senza mai perdere in eleganza e intensità. Fin dall’Ouverture, dove il presto iniziale particolarmente ritmato viene stemperato immediatamente dopo da un delicato e riflessivo andante, la bacchetta del direttore indiano non ha tralasciato alcun particolare, mantenendo una tensione specifica per tutta la durata dell’opera.

I personaggi agiscono nello spazio come presenze chiaroscurali, esponendosi alla luce durante i recitativi mentre durante le arie più importanti li vediamo avanzare sul palco, volgendosi al pubblico e, contemporaneamente, quasi sparire nell’ombra. Un avanzare sicuro che li schiaccia in una bidimensionalità da silhouette, presenze umane ridotte ad un’essenzialità che si staglia su di una scena di luce. Punta all’essenziale anche il gioco delle scenografie di Damiani dove tutto è fondamentale, l’orpello e la bizzarria spariscono per far sorgere un mondo orientale semplice, leggero. L’arco scenico subisce una riduzione, acuendo il gradiente rappresentativo della storia: un teatro nel teatro che colpisce tanto per efficacia ed eleganza quanto per l’intimità che accarezza.

La timida entrata di Belmonte (Mauro Peter) è funzionale alla stessa aria che lo presenta: la delicatezza del trattamento vocale dipinge un personaggio speranzoso ed aristocratico al quale viene contrapposto il baldanzoso Osmin (Tobias Kehrer). Quest’ultimo rappresenta una figura straordinaria, che non si riduce certamente all’immagine del ridicolo (e perfino simpatico) guardiano che, aiutato dal proprio fisico e dal testo, crea ilarità nel pubblico. Osmin è colui che tesse la trama dell’opera, il detentore della conoscenza delle regole dell’impero e delle possibili trasgressioni. Figura interattiva, egli agisce e dialoga con il pubblico, fino a richiamare l’attenzione dello stesso direttore (“Prego, Maestro”) affinché la musica ricominci. Lo sfruttamento appieno della forma dello Singspiel (che qui vede il cantato prevalere sul recitativo) giunge alla creazione di un ritmo naturale, che si sviluppa senza intoppi. Osmin possiede una profondità psicologica straordinaria, senza alcun dubbio quella maggiormente interessante di tutta l’opera (ma non per questo motivo, vincente).

L’entrata tardiva dei ruoli femminili è strategica e l’attesa viene ripagata dalle voci straordinarie che abbiamo ascoltato durante la serata scaligera. Konstanze (Lenneke Ruiten) è una soprano raffinata e potente e l’aria nella scena settima del primo atto dimostra immediatamente l’estensione vocale, la pregnanza del cantato e della sua sobrietà: nessun eccesso, nessuna dimostrazione di superiorità. Semplicemente, la bellezza di ciò che è sostanziale, come nel passaggio, repentino, dal recitativo al cantato, dove l’esplosione è importante sì, ma di certo non violenta. Accanto a questa meravigliosa Konstanze, incontriamo, all’inizio del secondo atto, la cameriera Blonde (Sabine Devieilhe), personaggio atemporale, che appartiene al Serraglio ma non in maniera esclusiva. Grazie anche al vastissimo repertorio della soprano francese, Blonde appare come una sfida che si gioca tra palcoscenico e platea, poiché ella traccia una linea vocale che appare come un crinale sottilissimo in equilibrio su pericolosissimi versanti. Ma la sfida riesce perfettamente e la Devieilhe raccoglie calorosissimi e meritatissimi applausi.

Se Belmonte è immediatamente riconosciuto come l’aristocratico, l’uomo nobile della storia, Pedrillo (Maximilian Schmitt) sembra essere una macchietta, e nemmeno molto coraggiosa. Ma egli si dimostrerà in grado di creare un piano quasi perfetto per riunire il proprio padrone Belmonte con l’amata Konstanze (e, di riflesso, rubare l’amata Bionda a Osmino). La semplice strategia messa in opera potrebbe funzionare perfettamente, derubando il guardiano della villa del Pascià della propria donna e del proprio spessore psicologico. Qualcosa, però, non funziona come dovrebbe. Ecco che si giunge al punto di rottura dell’opera, là dove tutto precipita e si risolve in una condanna paventata per tutto l’arco della storia. Ma ciò che dovrebbe avvenire non avviene: la condanna non ha luogo. Al suo posto, si palesa un’assoluzione massiva che libera le due coppie di fuggitivi e che, nella magnanimità del Pascià Selim (Cornelius Obonya), assume i contorni di una benedizione. Colui che fa le spese di questo gesto intenso ed inaspettato è Osmin che, da quella che noi credevamo fosse una profonda conoscenza dei meccanismi interni dell’impero, emerge un violenza che non è solamente organica ma anche dimostrativa del proprio io. La favola morale si compie nella risoluzione finale, ed il pubblico ricompensa cantanti, attori e musicisti con un grande, meritatissimo, applauso.

Spettacolo visto martedì 27 giugno 2017

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro alla Scala
Via Filodrammatici, 2 – Milano
orari: sabato 17, lunedì 19, mercoledì 21, martedì 27, giovedì 29 giugno e sabato 1 luglio 2017 ore 20
Il Teatro alla Scala ha presentato

Die Entführung aus dem Serail
Singspiel in due atti
libretto di Christoph Friedrich Bretzner
rielaborato da Johann Gottlieb Stephanie d. J.
musica di Wolfgang Amadeus Mozart
direttore Zubin Mehta
regia Giorgio Strehler
ripresa da Mattia Testi
scene e costumi Luciano Damiani
luci Marco Filibeck

con
Lenneke Ruiten Konstanze
Sabine Devieilhe Blonde
Mauro Peter Belmonte
Maximilian Schmitt Pedrillo
Tobias Kehrer Osmin
Cornelius Obonya Selim
Marco Merlini Servo muto

coro e orchestra del Teatro alla Scala
maestro del coro Bruno Casoni

durata 3 ore e 15 con due intervalli

http://www.teatroallascala.org