Dialoghi del Cuscino

Un libro, un video (seppure ancora inedito), un Festival, due spettacoli: Morte di Zarathustra e Pragma. Tenteremo di raccontarvi perché la necessità creativa di Clemente Tafuri e David Beronio continui a perseverare where angels fear to tread.

Scrivere dell’enorme lavoro (vista la mole, l’impegno e la perseveranza) di Teatro Akropolis pare impresa ardua. Farlo in un Dialogo del Cuscino e, quindi, in un approfondimento, ci darà solamente modo di segnalare le ultime fatiche di questa Compagnia e dei suoi due Deus ex machina. Partiremo dalle loro più recenti produzioni per il teatro, Morte di Zarathustra e Pragma – che abbiamo già recensito e, quindi, tenteremo di non ripeterci, per proseguire con una veloce disamina delle altre attività e chiudere con il loro ultimo volume edito da Akropolis Libri.

Ossessioni d’artista
In questo spazio vorremmo tratteggiare solamente alcuni stilemi del lavoro registico e drammaturgico rintracciabili negli ultimi due spettacoli, e che li pone quali espressioni coerenti di una ricerca poetica ed estetica ai limiti dell’antropologia – con quell’insistenza, o magnifica ossessione, sulle origine mitiche della pratica teatrale in Occidente. Ma anche – e forse proprio per questo – di chiara matrice ermeneutica, dato che si avverte un’esigenza creativa che tenta, nel suo farsi, di spiegare e interpretare, attraverso il teatro, l’essenza stessa dell’essere umano (dalle sue fobie alle sue pulsioni, dalle sue vette ai suoi abissi). Un fare teatro, quindi, connesso non solamente con fatti storici e resti archeologici – rintracciabili in frammenti museali o di testi – bensì calato nella carne (da Nietzsche ad Artaud il passo è breve) e che, dalla carne del performer estrae la forma mitologica, ossia il frutto di quell’immaginario collettivo (intessuto di segni e simboli) indissolubilmente legato alla radice organica. Ovvero, in parole più semplici, alla ragione prima che fa reagire gli esseri umani nello stesso modo di fronte al medesimo evento (quella che Instabili Vaganti definiscono “la memoria del corpo”).

Ecco, quindi, che nei lavori di Tafuri e Beronio, il corpo – squassato, scorticato, sviscerato ai limiti della crudeltà artaudiana o grotowskiana (laddove il performer deve sacrificarsi in qualche modo sull’altare di una verità che, arrivando alla comune matrice psicologica e antropologica, va oltre la rappresentazione dell’esistente – ossia il teatro borghese – per farsi immanenza, ovvero verità più vera, in quanto raggiunge un livello più profondo, di quella che esperiamo normalmente) – diventa strumento di uno scavo filosofico e psicologico nel mito, laddove il mito è immagine dell’Es (ossia dell’insieme caotico delle pulsioni). E qui, Tafuri e Beronio innestano Nietzsche, che interviene con la sua visione mi(s)tico-letteraria della nascita della tragedia greca da rituali ancestrali, ma anche (in Pragma) da una rilettura di quegli stessi rituali individuati nei Misteri Eleusini (su cui torneremo più avanti).

Se è facilmente afferrabile come concetto la ritualità intesa come uomini e donne che, in cerchio intorno al fuoco, sublimano la paura attraverso forme di socializzazione che potremmo definire artistiche (musiche, canti e racconti), la ricerca misterica è strada molto più impervia.

Qualche anno fa Dario Marconcini, regista e attore di grande cultura e talento, e Giovanna Daddi (sua compagna di lavoro e vita) ci raccontarono di avere esperito la propria andando fino: “ai confini tra Togo e Benin, dove si trova la porta del non ritorno (oltrepassata la quale, gli uomini perdevano l’iniziazione vudù ed erano venduti come schiavi ai mercanti bianchi, n.d.g.)”. Per poi aggiungere: “In quel periodo eravamo interessati al teatro della magia, e decidemmo di incontrare persone toccate dalla stessa, che si potevano riconoscere perché portavano sul volto una serie di cicatrici – segni che indicavano la possibilità di affrontare con loro quegli argomenti. Andavamo in cerca di forme primigenie e vedemmo cose che, per brevità, definirò strane, forse anche pericolose” (da una nostra intervista del 2016). Tafuri e Beronio tentano di seguire la propria rotta passando dalla Grecia ateniese alle teorie nietzschiane per approdare a Creta – patria di miti ancestrali, culla di un’umanità femminea che nella Dea dei Serpenti trova la propria immagine – e a quei Misteri Eleusini di cui non si sa quasi nulla perché gli iniziati erano costretti al silenzio. E qui, interviene a spiegare questa ricerca il saggio indubbiamente più interessante del loro ultimo volume, edito per Testimonianze ricerca azioni 2019, ossia Nella foresta del rituale di Stefano De Matteis che, con prosa cristallina e grande capacità di analisi, descrive i rituali di Madonna dell’Arco, nel napoletano, dove pratiche come la processione in strada – assurta a palcoscenico – l’esclusività che ammette solo gli iniziati, la trance e i mancamenti, oltre all’ostilità dei prelati o degli addetti al culto verso questo rito insieme atavico e popolare, sembrano rispecchiare proprio le ipotesi storiche e antropologiche intorno ai succitati Misteri. Unica pecca, tale saggio – essendo decontestualizzato (chi potrà afferrare il legame con la ricerca di Akropolis?) – appare depotenziato rispetto alla sua importanza per capire il lavoro della compagine genovese e, in generale, lo stretto legame tra forme di ritualità religiose – o meno – e la nascita del teatro occidentale.

Tornando, quindi, alla succitata memoria del corpo, potrà la stessa sollecitare e riportare, sull’impiantito del palcoscenico, la visione o, meglio, l’esperienza, di ciò che fu – e che, come dimostra il rituale napoletano, potrebbe ancora essere? Se oggi ritraiamo la mano di fronte al fuoco (perché, anche senza esserci mai scottati, sappiamo che brucia), e sebbene si sia affascinati dalla sua fiamma (che sicuramente pareva benigna e protettiva di fronte al buio della notte atavica), Tafuri e Beronio (ma anche gli eccellenti fiancheggiatori di questa ricerca creativa, Alessandro Romi e Luca Donatiello) riescono a riportare in vita (con un’espressione che spesso rubiamo a Marco Martinelli) quel mito e a farlo riverberare nella nostra contemporaneità – intesa come immanenza – proprio in quanto la loro ricerca parte dalla carne (e non da una asfittica dissertazione filosofica o da un accademico recupero archeologico). Perché solamente quando il sostrato emotivo e psicologico, in questo caso mitico, riesce a legarsi al nostro presente, al nostro esserci qui e ora, il testo e la scena prendono vita, e il teatro si fa esperienziale, laddove “un teatro che non fa morti, che non sollecita crimini, delitti, sabotaggi, non può essere teatro, è spettacolo” (Carmelo Bene).

Dalle assi del palcoscenico all’immaginario collettivo
Per indagare questo processo creativo, Teatro Akropolis ha prodotto un video (ancora inedito), nato da una suggestione di Roberta Nicolai per Teatri di Vetro 2019, che non racconta in maniera documentaristica il dietro le quinte della produzione di Pragma, quanto le ossessione d’artista dei registi ma anche, supponiamo, dei performer, Donatiello e Romi. Da una visione privata abbiamo rubato alcune suggestioni seducenti. Il collage di immagini scorre liberamente come le associazioni d’idee dei minuti precedenti il sonno, o come la scrittura automatica dei surrealisti – non a caso, citati anche direttamente. Nel video alcuni elementi sono di più facile lettura se si conosce il lavoro di Akropolis o si è letto il saggio di De Matteis: il senso di abbandono, la ripetizione del gesto fino al parossismo o alla trance, la circolarità vorticosa del tarantato o dei mulini a vento, paiono tutti segni chiari a indicare i significati rintracciabili in Pragma (che, ricordiamo, ha come tema base il mito di Persefone rapita da Ade e la sofferenza della di lei madre, Demetra, che tornerà a sorridere grazie a Baubo e, con maggiore convinzione, dopo la decisione salomonica di Zeus di lasciare che la figlia torni ogni anno sulla Terra, per sei mesi. Un mito assimilato dall’antica Roma con la consueta modificazione dei nomi in Proserpina, Plutone, Cerere e Giove). Altre stringhe di immagini paiono più soggettive. Se, personalmente, ci pare di ravvedere un richiamo a Donne che corrono coi lupi, e a tutte quelle bambine che, attraverso le favole, possono correre questo mondo libere dalle coercizioni e imposizioni sociali rivendicando il proprio sé; il côté surrealista – rappresentato da diversi esponenti della celebre corrente – è indubbiamente un sostrato emozionale ed estetico che sembra porre l’inconscio e la sua indagine tra gli obiettivi del lavoro di Akropolis. Anche la carne e la carnalità, di cui si scriveva, tornano prepotentemente alla ribalta con i colori sanguigni e la figura di Hijikata, che rimanda da subito a Persefone, come rappresentata – o, meglio, esperita/attuata – in Pragma.
E adesso un piccolo inciso personale. Dato che questo è un Dialogo del Cuscino e possiamo, quindi, divagare con maggiore libertà, ci fa piacere aggiungere alcune considerazioni su Pragma, che ci sono sorte alla mente. Sebbene siano usciti molti approfondimenti, tutti interessanti, sulla possibile comicità e scurrilità che avrebbero contraddistinto i Misteri Eleusini, ai quali attingono Tafuri e Beronio per la loro ispirazione, forse un aspetto meno evidente è il côté sadomasochistico – ben prima di De Sade – che avrebbe potuto connotare le iniziazioni al culto di Diòniso. Sarebbe interessante riandare al fregio della Villa dei Misteri, esemplare incontro tra ellenismo e arte romana, dove si intravede la figura della flagellata e domandarsi se e come emerga in Pragma il principio del piacere e di quale piacere si tratti (antropologicamente ed esteticamente parlando). Un altro aspetto che verrebbe voglia di approfondire è la discendenza della figura di Demetra (soprattutto quella portata sulla scena da Romi) dalla Dea dei Serpenti. Le sue movenze così ieratiche e geometricamente esatte rimandano sia alla figurina di faenza rinvenuta nelle cripte del Santuario centrale del Palazzo di Cnosso e databile intorno al 1600 a.C., sia alle danzatrici dell’anello d’oro proveniente dalla tomba di Isopata, conservato nel Museo di Iraklion. Risalire dall’azione scenica all’ispirazione – cosciente o inconscia – culturale e artistica, che l’ha generata, ha il medesimo sapore del racconto di Samantha Marenzi (in un altro saggio del succitato volume, su cui torneremo) riguardo alle fotografie di Hosoe che riuniscono in un solo scatto e, quindi, in un unicum spazio-temporale, alcune riproduzioni della pittura italiana rinascimentale e il danzatore di Butoh, Hijikata – così che il corpo si fa elemento paesaggistico mentre l’oggetto perde la sua funzionalità prettamente artistica diventando parte di un processo in atto. E infine ci piace ripensare al libro di Gore Vidal, dedicato a Giuliano, l’ultimo Imperatore romano che tentò di restaurare la libertà religiosa, ivi compresi i Misteri Eleusini. In una pagina del suo diario fittizio, Vidal scrive – con la verità dell’immaginazione creativa, spesso più esatta a livello emozionale e psicologico di qualsiasi realtà storica – che il mistero è rinchiuso nella ciclicità naturale ed eterna: “una luminosa spirale di vita, persa e riconquistata” e non sarà un caso se Libanius chiude il libro con un potente j’accuse nei confronti dei cristiani che guardano, al contrario, a ciò che non è più: “venerano un uomo morto e si dicono l’un l’altro che questo mondo non è per noi, e il prossimo è tutto ciò che conta. Solo, non esiste nessun altro mondo” (t.d.g.). Al contrario, quindi, di quegli antichi iniziati ai Misteri Eleusini che ponevano la centralità della carne, e il qui e ora (come fa il teatro), quale spiegazione ontologica dell’essere nel mondo.

Morte Di Zarathustra1

Dal Festival attuato alla pagina scritta
Dalla pratica alla teoria fino all’organizzazione di una serie di eventi per stimolare l’occhio e la mente. Nel novembre 2019 Teatro Akropolis ha proposto a Genova la decima edizione del suo Festival che, nell’ambito di un progetto triennale, ha trovato per il secondo anno consecutivo il proprio fulcro nella due giorni dedicata al Butoh (con tre performance, un Convegno, un incontro con i danzatori giapponesi e una mostra fotografica). Come sempre, l’interdisciplinarietà e l’attenzione a ogni forma o linguaggio teatrale, travalicando confini settoriali o accademici, ha permesso di assistere a una serie di lavori molto diversi fra loro ma tutti accomunati da una profonda e genuina necessità creativa – da Lenz Fondazione a Masque Teatro passando per C&C Company, Aline Nari, Alessandro Bedosti e lo stesso Teatro Akropolis. L’ultimo tratto di strada che percorreremo nell’universo di Tafuri e Beronio è, quindi, con il decimo volume dedicato ai contributi dei protagonisti di Testimonianze ricerca azioni, edito da Akropolis Libri e curato dagli stessi.
Due le dovute premesse. La prima è l’importanza di aver puntato su un approfondimento anche teorico e sulla carta stampata per far emergere contraddizioni e dietro le quinte, pensieri in libertà e studi teorici così da restituire al pubblico quella complessità di matrice culturale, ma anche esperienziale, che sottende il lavoro in teatro. La seconda è l’importanza del dialogo che, nel Festival così come nelle varie attività formative (pensiamo al Laboratorio Arabesco e alla ricerca attorale sul coro tragico e le origini del teatro occidentale) o nei libri, punta a rivitalizzare il discorso interrotto tra artisti e spettatori – che, negli ultimi decenni, sta diventando sempre più a senso unico. Con i primi spesso autoreferenziali o, al contrario, pressati a produrre per fini commerciali e svuotati di ogni esigenza creativa. E i secondi più avvezzi all’obnubilamento televisivo (o del sempre risorgente e assopente teatro borghese) o alla piattezza dello pseudo scambio da social che non a una riflessione – anche combattuta e urtante, ma per questo catartica – su quelle proposte teatrali che non fanno più pensare, né nelle quali è possibile che una società effettivamente si rifletta. Una scelta, questa, che negli ultimi anni ci ha regalato il volume Morte di Zarathustra (approfondimento sullo spettacolo omonimo ma anche sulla nascita della tragedia e sul pensiero nietzschiano); e la raccolta di saggi dedicati a Giorgio Colli (a seguito di un altrettanto interessante Convegno, tenutosi a Palazzo Ducale il 13 e 14 aprile 2017, intitolato Trame nascoste).
Detto questo, veniamo al volume Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni 2019, che ha il pregio di una varietà di scritti e autori che spaziano nei più diversi campi e l’obiettivo di legarsi a un Festival altrettanto ricco di contenuti.
Il valore aggiunto, però, sta, a nostro avviso, altrove; ossia nell’aver legato tanti tra i saggi contenuti al dietro le quinte, a quella fucina di idee e sogni, immagini e progetti, battute d’arresto sconfitte e improvvise illuminazioni, a quel fare disfare e rifare (come spesso ricorda Ermanna Montanari) che è il mestiere del teatro.
A questo proposito ci sembra che Roberta Nicolai, nel contributo intitolato Oscillazioni, sia tra gli autori che hanno spiegato meglio il perché abbia valore la disamina e l’indagine delle pratiche (con parabola finale enormemente godibile) e lo abbia dimostrato, praticamente, nel saggio scritto a quattro mani con Paola Bianchi, ELP. Processo di creazione. Dello stesso livello, la scoperta del sensibile scambio epistolare di Marco D’Agostin e Chiara Bersani; l’intervista impossibile ad Alessandro Bedosti – che apre squarci di verità quando sostiene: “Un’opera artistica non è un indovinello, un quiz a premi. Non nasconde un significato che bisogna indovinare e che il più delle volte coincide con l’intenzione dell’artista. Direi anzi che nel momento stesso in cui l’opera viene consegnata, questa non è già più dell’artista che l’ha creata, ma è del mondo in cui si consuma e si dà”. E ancora, il raccontarsi di Aristide Rontini, Yumiko Yoshioka e Tadashi Endo, la confessione autentica di Sara Pischedda, le spiegazioni puntuali del proprio progetto di Valentina Cortese. Ma anche, oltre al succitato De Matteis, da notare Alessandro Pontremoli con le sue considerazioni demistificanti sulle origini della danza contemporanea italiana; oltre alla riscoperta di una figura quale Giacinta Pezzana dovuta a Laura Mariani.
Tutto ciò, del resto, consegue direttamente dalla prefazione, di cui citiamo un paio di dichiarazioni dei curatori oltremodo condivisibili: “Forse il compito di far capire l’arte contemporanea può essere assolto proprio dai festival”, e più oltre: “solo mostrando gli elementi bassi che stanno alla base di un’opera, è possibile umanizzarla, renderla comprensibile come operazione creativa e culturale”, ossia evitando che l’arte sia “ridotta a una pianta di serra” (sempre dalla prefazione, la citazione è da Richard Wagner).
E però altre scelte ci hanno convinti meno. In primis, non possiamo apprezzare le citazioni in lingua originale quando non tradotte – dato che il lettore non dovrebbe essere obbligato a conoscere idiomi diversi dal proprio quando si dedichi a un volume di approfondimento.
Il secondo dubbio che sorge, leggendo il libro, è se chi non abbia partecipato al Festival abbia, comunque, gli strumenti per comprendere i vari autori e come i saggi si inseriscano in un lavoro per la scena, in una pratica o in un pensiero teorico magari esplicitato durante un incontro o il Convegno. Manca, purtroppo, una contestualizzazione degli interventi che, sebbene offrano una panoramica molto ricca del fare teatro, forse proprio per questo appaiono ancora più difficili da interpretare (come summenzionato per il De Matteis).
Anche il linguaggio non è sempre accessibile se non agli addetti ai lavori. L’erudito Roberto Tessari, ad esempio, regala un’autentica lectio magistralis in Baubo, la figlia della terra, ma i lettori cosa capiranno di una frase a caso, come questa: “Sul piano iconologico, la risoluzione classica del polimorfismo simultaneo dell’Archetipo traduce il rifrangersi della sua percezione sintetica in pluralità di “poteri”, generando pluralità di tipologie rigorosamente e “mostruosamente” estranee ai canoni e ai percorsi dell’antropomorfosi”? Qui non si fa un buon servizio all’obiettivo di farsi e far capire. Purtroppo, non è solamente Tessari a mancare di spirito divulgativo (che è, sì, una questione linguistica ma anche di inserimento di uno scritto all’interno di un contesto). Altro esempio a caso, il saggio di Samantha Marenzi, La parata dell’Imperatore e la voce del poeta; e, tra i tanti, il rimando al “gruppo di ragazze morte o perdute”. Lo scritto è interessante ma volendo inserire troppi filoni (come già notato durante il Convegno), a volte perde in profondità – e questo lo si nota soprattutto nel dare per scontati richiami criptici. Nessuno mette in dubbio che sia stimolante (e auspicabile) per il lettore cercarsi dati e informazioni su Eliogabalo o Colette Thomas (anche semplicemente in rete), ma un appunto preciso a un concetto fondamentale o a una pratica o a elementi biografico-estetici è altra cosa. Pensiamo a quando Marenzi scrive della sorella (vera o sublimata, morta o prostituita, biografica o frutto di mistificazione – e perché mai, poi?) di Hijikata. Nel saggio i troppi temi fanno sorgere una miriade di domande, purtroppo senza risposta. E chiudiamo con il discorso di Katja Centonze in Letteratura invaghita del corpo. Chiaro e scorrevole, si attiene a una tematica specifica, ossia il rapporto tra il critico esteta Mishima e il danzatore antiesteta Hijikata. Lo scritto, ben mirato, mette in luce il dialogo tra i due artisti e come il primo abbia saputo leggere il secondo (tra l’altro, le traduzioni in italiano ci regalano un Mishima lineare e arguto, come nel paragone tra danza classica e Butoh), restituendoci il dietro le quinte del fare del coreografo e danzatore giapponese, ma anche un vivido esempio di come l’arte possa essere tradotta dalla penna di un letterato.

Morte Di Zarathustra2

Conclusioni?
Non è da noi tirare le somme. Tali operazioni aritmetiche spettano agli accademici e, soprattutto, agli storici. A posteriori. Noi che da critici siamo calati nel work in progress possiamo solamente confrontarci con il presente, fare rimandi, creare collegamenti, vedere questi teatri rifrangersi nella società contemporanea e nella sua politica (dato che, “in democrazia, nessun fatto di vita si sottrae alla politica”, Gandhi docet). Come scriveva Claudio Meldolesi: “Il pensiero del teatro è per sua natura ideologico, e, pertanto, ha bisogno di ampi movimenti d’idee, di continue riformulazioni: correnti d’aria che impediscano all’ambiente di bloccarsi nella perfezione della camera chiusa, dove gli oggetti sono a posto ma il tempo ha cancellato le tracce della vita”. E, visto che la figura di Meldolesi aleggia anche nel volume e il suo acume è ancora un faro che indica non una ma una pluralità di direzioni con estrema chiarezza, ci piace ricordare un’altra frase che da sempre è sulle nostre labbra e tastiere (dato che la penna è ormai caduta in disuso): “Il teatro è compresenza di vari tipi di teatri, ognuno dei quali tipi poggia su una mentalità diversa”. Ed è a questa anarchia creativa a cui riconduciamo l’originalità di Teatro Akropolis – un humus che fermenta e fiorisce in sempre nuove espressioni vitali e non in isteriliti prodotti di serra.
I teatri, specchio di vita, immanenza e compartecipazione, sono luoghi dell’esperienza e della compresenza e, ognuno di noi, può subirne il fascino fino all’ossessione perché vivere il teatro è vivere tout-court. E se non ci è dato – né vorremmo – trarre conclusioni possiamo però lasciarvi con una nota più leggera, da commedianti, un verso di Giorgio Faletti per Angelo Branduardi: “Con la luce che scende, col sipario che cala, si consuma la corda e la tela. Si divide, d’un tratto, da chi ha solo assistito, chi indicava la luna col dito. E ogni volta lo sciocco che di vite ne ha una, guarda il dito e non guarda la luna”.

Nel titolo: Where angels fear to tread, ossia Dove gli angeli non osano metter piede, dal romanzo di E. M. Forster.