Parte prima

È morto mercoledì 25 novembre 2020, a seguito di un attacco cardiaco nella sua casa di Buenos Aires. È morto il calcio per come un Dio straccione lo avrebbe giocato, coi suoi eccessi e le sue contraddizioni.

Maradona nacque povero, il 30 ottobre 1960 nel quartiere di Villa Fiorito, a Lanus, poco distante da Buenos Aires. Si sparge voce che in alcuni campetti fangosi, gioca un ragazzino che compie miracoli. Curiosi e appassionati – quasi fossero Re Magi – cominciano a seguirlo. L’affermazione di Diego bambino intervistato da un cronista («Ho due sogni, il primo è giocare alla Coppa del Mondo, il secondo è vincerla») testimonia di come il destino talvolta scelga un essere umano per giocarci d’ironia: gli concede di esaudire il suo sogno, certo, e con questo la gloria di un’assunzione quasi divina, ma – come per ogni eroe omerico – a prezzo di una vita assediata dalla morte.

Cosa resta di una vita al massimo? Non certo i trofei, destinati alla polvere. Restano – come li definiva Carmelo Bene – quegli attimi di grande teatro, in cui nel tempo di un respiro l’attore realizza l’impossibile, quella sospensione magica e terribile in cui tutta la nostra vita sembra avere un senso, sembra stare in piedi da sola. Tutto appare chiaro, netto. Non c’è più dolore, né affanno, solo l’elevazione del corpo a uno stato celeste, quel corpo che per noi mortali è un sarcofago, e che per Maradona era un battito di ciglia, una corsa alata per volare sopra le tenebre insistenti sul mondo: necessità, tristezza, dolore.

Non che uno spettacolo possa far credere di abbattere la morte, ma certo può e deve per un momento sollevare il pubblico dall’invivibilità della vita, senza consolare, senza decorare, ma puntando all’attimo estraniante in cui l’attore si tira fuori dalla programmazione registica, per uscir fuori di testo e arrivare lì dove non c’è più modo, tecnica o espediente, ma solo l’atto.

L’atto in cui Maradona appare è una serpentina tagliente, una velocità aberrante, un colpo di tacco a invitare un compagno sempre in patetico ritardo, o a farsi beffe di un avversario che si vendica con un’entrataccia. Bruno Giordano che gli fu compagno dal 1985, afferma ancora oggi che avrebbe potuto segnare più goal se fosse riuscito a capire l’imprevedibilità delle sue giocate. A vedere Maradona si ha l’impressione riesca ad attribuire al tempo una torsione eccentrica, nella quale accelera, mentre tutto il resto (i compagni, gli avversari, la città, il mondo, la Storia) sembra andare al ralenti.

Era un mancino dotato di baricentro basso, gambe agili e potenti. Non dava l’idea di essere veloce, ma era capace di scatti fulminanti sul breve, tali da fargli guadagnare una rapida corsa. Il suo piede sinistro cambia giocata all’improvviso: quando sembra temporeggiare, scatta, e quando sembra partire, frena. L’avversario è già fuori tempo: inciampa, perde baldanza, è superato; è fuori dal tempo accelerato del niño, ben dentro il tempo come grammatica da abbecedario. Maradona riduce a respiro il tempo, lo dribbla, vive nei suoi frammenti sempre più rapinosi. Se Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, Maradona dà l’idea di poter superare il piè veloce perché non ha nel mirino l’avversario ma il tempo stesso, col pallone a fare da pendolo per il suo ritmo.

Secondo Johan Cruijff, Maradona dava l’impressione che la sfera fosse un tutt’uno col piede, con il pubblico a chiedersi dove sia il trucco, tanto da far inventare a Gianni Brera il termine iperbolico di prestipedatore. Se l’avversario si concentrava sul pallone, poteva avere la tentazione di poterglielo artigliare con un tackle, ma il più delle volte fendeva l’aria; la palla scompare all’ultimo, non c’è più. Rimane solo l’entrata assassina che però non può far male, perché l’eroe vi corre sopra, come nella corsa di un topo o dei simulacri nella playstation.

L’unico modo di fermarlo era fare un sol mazzo di gambe, pallone, cuore, mente, mondo. Maradona era in grado di resistere all’aggressione fisica, anzi sembrava appoggiarvisi, cercare il contatto del corpo per piroettarvi intorno d’agilità come un tangueros. Di fronte però all’affondo di frustrazione, poteva evitare il primo, il secondo, ma al terzo veniva sempre centrato con violenza. Ai malcapitati difensori la scelta: goffaggine o cattiveria. C’era sempre però una terza scelta. «Durante una partita Juventus–Napoli, nello spogliatoio – ricorda Zbigniew Boniek – ci dicemmo che l’unico modo per fermarlo era menargli di brutto. Ma dopo dieci minuti in campo ci guardammo e ci dicemmo che no, era troppo bello vederlo giocare».

«Abbiamo bisogno di miti» affermava Carmelo Bene al Maurizio Costanzo Show del 1994, giustificando chi, al fine di liberarsi del peso di vivere, è disposto a pagare qualunque cifra per un solo attimo, quello in cui il cielo tocca la terra, la grazia accarezza chi soffre. È l’attimo in cui Maradona rende possibile l’impossibile. La festa negli spogliatoi per lo scudetto 1987, vede tutto il gruppo, compresi magazzinieri e il presidente Ferlaino, seminudi e urlanti. Cantano “Sai perché mi batte il corazon?”. Ho visto Maradona, e mi sono innamorato.

Maradona, essendo il calcio, non può giocare al calcio. È il lampo, che elettrizza i compagni e la Storia, permettendo quel travaso maniacale che tiene alta l’intensità. Carmelo Bene citava spesso un passo del romanzo di Tommaso Landolfi Rien va, in cui l’autore afferma che non si può fare letteratura con la letteratura, né musica con la musica; andando all’estremo, non si può vivere con la vita. Questa è invivibile, per questo Maradona non ha voluto essere di questo mondo, contro il “me” che lo trascinava nel fango, quel fango che è appunto la vita, che è Villa Fiorito, è la mortificazione fondativa dell’essere umano.

Parte seconda: DIEGO ARMANDO MARADONA, CALCIO E TEATRO