I figli della violenza

piccolo-teatro-milano-80x80Il debutto di Damiano Michieletto al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, ovvero Divine parole di Ramón María del Valle-Inclán: un’occasione mancata.

Doppio interesse per Divine parole di Ramón María del Valle-Inclán al Piccolo Teatro Studio Melato: da un lato il testo, quasi sconosciuto in Italia (anche se pubblicato da Einaudi nel 1974 su volontà di Paolo Grassi e rappresentato nello stesso anno da Franco Enriquez), ma ritenuto una pietra miliare della cultura spagnola novecentesca; dall’altro la prova registica di Damiano Michieletto, apprezzatissimo metteur en scène d’opere italiane all’estero, che da qualche anno si cimenta anche nella prosa (l’anno scorso ha diretto un vivace, ma superficiale, Ispettore generale di Gogol). Aspettative purtroppo deluse: spettacolo raggelato in immagini di raffinata eleganza, ma senza un velo di ironia e talvolta un po’ noioso.
Ripartiamo dall’inizio. Strano e bizzarro scrittore, Ramón María del Valle-Inclán (1866, Villanova de Arousa, in Galizia), cultore dell’orrido e dello sperimentalismo, come molti dei modernisti europei, ma anche saldamente attaccato alle tradizioni folcloriche della Spagna. La sua poetica ruota attorno a una parola, “esperpento”, che significa “persona o cosa brutta, sgorbio”, e difatti tutta la sua produzione rappresenta un mondo deformato, come riflesso da uno specchio concavo. Divine parole (1919) non fa eccezione: la storia ruota tutta attorno a un mostro idrocefalo, usato dalla madre per impietosire i passanti e ottenere ricche elemosine. Alla morte della donna, il bambino deforme è conteso da due cognate, Marica e Mari-Gaila, la moglie del Sagrestano. Non è una riedizione del celebre verdetto di Salomone, né tanto meno di un’anticipazione del brechtiano Cerchio di gesso del Caucaso: qui non si contende in nome dell’affetto, ma per volgari ragioni economiche, anche perché in questa terra desolata non c’è riscatto né salvezza. La vicenda è inserita in un contesto sociale fortemente degradato: prostitute, mendicanti, vagabondi che trafficano col demonio, padri tentati dall’incesto, un branco di disperati senza futuro. E come spesso capita, sesso, sangue e morte fanno da padroni, mentre le parole di Gesù, “Nessuno scagli la prima pietra”, cadono nel vuoto (in realtà nel testo di Valle-Inclán il suono latino di quelle parole ha un potere salvifico, ridimensionato nello spettacolo). Se è vero quello che ci insegna Jorge Luis Borges, ovvero che ogni autore crea i propri predecessori, non è difficile trovare in queste pagine anticipazioni del surrealismo, dei figli della violenza di Luis Buñuel e magari dei proletari di Pier Paolo Pasolini.
Allo scrittore di Casarsa dichiara infatti di ispirarsi Damiano Michieletto, cui la brutale scena del volto del bambino divorato dai maiali ricorda probabilmente Porcile. Ed è forse questo accostamento che lo spingerebbe a realizzare uno spettacolo di forte indignazione civile. Ma poi stranamente abbandona quella forma di teatro di poesia, quindi di parola, e sceglie un approccio più fisico e materico, alla Ricci e Forte. Solo che degli spettacoli dei due registi romani qui non c’è il dinamismo, il continuo flusso energetico che si sviluppa e brucia nel corso dei loro spettacoli. L’immagine (e solo di immagine si può parlare) è infatti raggelata in quadri di straordinaria bellezza, inutilmente estetizzanti. Lo scenografo Paolo Fantin ha ideato un rettangolo di terra fangosa che si perde all’infinito, cui si contrappone in fondo uno spazio di immacolato candore, la chiesa o la sagrestia. Un sipario di lamiera separa di tanto in tanto i due luoghi, che le luci di Alessandro Carletti illuminano con grande efficacia. Costumi contemporanei e funzionali di Carla Teti. Il tutto avvolto in contenitore sonoro di musica religiosa: Arvo Pärt, Allegri, Barber, Gòrecki e, incongruamente (non tutta la musica sacra è assimilabile), un Fauré nel finale.
Ma in questa scenografia di singolare bellezza è il miracolo della recitazione quello che non si compie. Ognuno recita secondo la propria scuola e le proprie consuetudini: di tanto in tanto si sentono intonazioni ronconiane, ma sganciate da qualsiasi necessità, mescolate ad altre più tradizionalmente oratorie. Eppure si tratta di una compagnia di valore: Federica Di Martino (la più convincente), Gabriele Falsetta, Marco Foschi (nel ruolo di Séptimo Miau, il seduttore diabolico), Lucia Marinsalta, Bruna Rossi, Fausto Russo Alesi (il più manierista), Cinzia Spanò e Sara Zoia. Nessuno di loro si risparmia nel tentativo di dare intensità al proprio personaggio (e neppure a rotolare nel fango, ad avvolgersi nella plastica, a penzolare come un quarto di bue appeso a un gancio), ma nessuno riesce a essere autentico: troppi silenzi, troppi rallentamenti e sospensioni in uno spettacolo cui gioverebbero le aspre secchezze del Wozzeck di Alban Berg. Peccato (è il caso di dirlo): un’occasione mancata.

Lo spettacolo continua
Piccolo Teatro Studio Melato
via Rivoli, 6, Milano
dal 25 marzo al 30 aprile 2015

Divine parole
di Ramón María del Valle-Inclán
traduzione Maria Luisa Aguirre d’Amico
regia Damiano Michieletto
scenografia Paolo Fantin
costumi Carla Teti
luci Alessandro Carletti
personaggi e interpreti
Pedro Gailo: Fausto Russo Alesi
Séptimo Miau: Marco Foschi
Poca Pena / Benita: Lucia Marinsalta
Juana la Reina: Sara Zoia
Rosa la Tatula: Bruna Rossi
Miguelín el Padronés: Gabriele Falsetta
Donne: Federica Gelosa, Francesca Puglisi
Mari-Gaila: Federica Di Martino
Marica del Reino: Cinzia Spanò
Il Cieco di Gondar / Milon: Nicola Stravalaci
Simoniña: Petra Valentini
e con gli allievi del Corso “Luchino Visconti” della Scuola di Teatro Luca Ronconi
Alfonso De Vreese, Benedetto Patruno, Marco Risiglione
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa