Tra i totem

A Roma, Donne d’Acqua Dolce. Un viaggio sotterraneo nella natura femminile.

Incomincia dal viaggio, probabilmente. O meglio, è sicuro.
Parliamo di variabilità, parliamo di trasformazione. Parliamo del magma che sommuove dal basso gli strati più epidermici, una specie di flusso ematico, inarrestabile. In sostanza, parliamo di cultura.
Il polso di Roma capitale è tachicardico. La sonnolenza della Toscana non la riguarda minimamente. Nello Studio Zero, nelle profondità dell’Urbe, dove si raccoglie un fermento umano estraneo alle piccole città, si distende una cultura colloquiale e vispa, il cui palcoscenico, così diverso da quello altero del teatro borghese, lo si raggiunge scendendo scale.
È in questo bunker urbano che, tra sgabelli, immigrati, giacche di jeans e trilli estatici di Tennent’s, prende forma una gamma di spettacoli più diretta, più o meno profonda, ma che ancora non prova vergogna nel votarsi al puro e semplice intento del divertimento.
È il caso di Donne d’Acqua Dolce, una produzione di Viviana Altieri ed Elisabetta Mandalari, nata nell’ambito del progetto B-tside, che sa celare dietro un’interpretazione schietta, possiamo anche dire cabarettistica, la rielaborazione di diversi temi e contributi culturali.
La finzione, che ruota attorno alla villeggiatura in Sardegna di due effervescenti ragazze, articolata in quattro scene distinte dalla partenza al giorno del ritorno, vuole offrire ritratti molteplici di quella che è la condizione femminile, o piuttosto del femminino in sé, riassunto in una serie di tipi e stereotipi – concetto estrapolato dall’opera di Gloria Calderon Kellett, Accessories, una vivace trafila di monologhi muliebri pensata appositamente per il teatro, e qui concretizzata quando, intervallando le scene della villeggiatura, le autrici vestono i panni preconfezionati della donna-sposa, la donna-cacciatrice, la donna-peccatrice, esemplificata in un’Eva fiorentinizzata, fino alla brasiliana artista del corteggiamento.
Questi personaggi disomogenei che s’intessono nella trama con risultati sovente stranianti – introdotti da brevi cortometraggi – portano in sé la natura dello specchio e dell’occhiale, vista la loro attitudine a riflettere più limpidamente ciò che le giovani esprimono nella dimensione reale. E così, ad esempio, alla goliardica serata in discoteca alla ricerca di uomini si palesa il totem della cacciatrice, caratterizzata dall’accento napoletano che la rende, come le compagne, una versione studiata e femminile della maschera italiana.
A colorire ulteriormente l’arazzo la presenza di un intermezzo musicale che, alternando il trash al grottesco, conia il nome all’opera e parodizza il Poker Face con cui Lady Gaga ha tormentato l’estate di un pò tutti gli italiani.
Nella policromia che è Donne d’Acqua Dolce, rappresentazione dolceamara di quello che è la donna e gli ideali che incarna, un finale divertente, ma poco omogeneo è dato dalla rielaborazione di Four Yorkshire Men, dei Monty Phyton, nella quale due protagoniste ormai in età avanzata rammentano, come i quattro signori a cui s’ispira lo sketch, un passato di miserie via via più tragico, fino al surrealismo e all’evidente esagerazione narcisistica. Il risultato è però una scena spiazzante, sebbene ben interpretata, che si allaccia con difficoltà ai fatti della trama principale e non propone né stereotipi né tipi caratteriali, bensì uno stato di essere, peraltro ascrivibile a entrambi i sessi.
Cose che accadono in piccole arene come questa, dove si approda bevendo una birra per poi riemergere nel formicaio a cielo aperto che è la città, con migliaia di uomini, migliaia di donne come le nostre protagoniste, umanità complesse che uno stereotipo non potrà mai, mai esaurire. Ma vi è alternativa?
Intanto, ridiamo.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Studio Uno

via Carlo della Rocca, 6 (Torpignattara)
dal 28 aprile al 1 maggio
da giovedì a sabato ore 21:15, domenica ore 19

Donne d’acqua dolce
presentato da Bluteatro nel progetto B-tside
scritto diretto e interpretato da Viviana Altieri ed Elisabetta Mandalari