Bardo e cabaret

Giovedì 28 luglio, a Volterra, doppio appuntamento teatrale. Alle 15.00 con Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare, per la regia di Armando Punzo, all’interno della Fortezza. E, a seguire, Il cittadino ideale, di e con Massimiliano Civica, al Teatro Persio Flacco.

Sospesi nel tempo, in un non-luogo, dove si susseguono avvenimenti e vicende collocati in uno spazio neutro e immobile. Una selva di croci sulle quali si immolano, dopo un lungo percorso da penitente, le figure che, dalle varie entrate, si presentano sulla scena/arena. Il tempo come clessidra umana, che ripete instancabile il gesto al presente della figura triste, pensosa e forse un po’ stanca dell’autore/regista (metateatralmente compresente nella giustapposizione cortocircuitale di Shakespeare/Prospero/Punzo), assillato dalle ancelle che, al rifiuto di attenzioni, esplodono in un pianto disperato che cade nel vuoto.
Figure femminili di regine in lutto o candidamente vestite (simboli di verginità?), che entrano senza proferire parola in uno spazio già popolato di soggetti, più o meno interpreti attivi, di questa riscoperta di versi spuri del Bardo. Regni fantastici evocati dalla penna di Shakespeare, qui appesantiti da questa schiera di personaggi fermi nel tempo come nello spazio, ossessivi e ripetitivi nel gesto, privati della parola e dell’azione. Imago che perseguitano l’autore Deus ex machina, colpevole di averli creati e dannati.
Spettacolo ontologicamente, secondo noi, sfilacciato, partendo proprio dalla parola, in quanto a volte gestita autonomamente dall’attore (microfonato, e che si erge a essere propriamente umano) e, a volte, distribuita da Punzo/Prospero/Bardo a coloro che incedono sulla spazio scenico (perché solo l’autore dovrebbe essere l’unico e vero artefice). Frammenti che solo parzialmente sono riconducibili a figure shakespeariane e, a brevi tratti, danno un senso univoco al J’accuse che serpeggia nel sottotesto. Sbilanciati da passaggi interpretati quasi senza partecipazione emotiva e avulsi dal contesto/significante – sia esso la Fortezza/carcere o l’opus shakespeariano. Indubitabilmente, sono le figure di Caliban e Otello quelle che coinvolgono maggiormente lo spettatore per la loro forza e pregnanza, per l’interpretazione sentita e consapevole, per l’intensità del messaggio in un detto/non detto inevitabile quando si assista a un lavoro teatrale in carcere.
Le musiche, pian piano, sostituiscono la rumoristica, generata dalle pedane microfonate (soprattutto per lo zoppicare di Riccardo III) e dalla caduta di oggetti metallici. Motivi musicali che diventano ossessivi, nel caso del personaggio di Desdemona, che imperterrita ripete il gesto di porgere il fazzoletto – fino alla scena estrema di richiesta di verità. Un “giuramelo”, prima domanda pacata, poi urlo lacerante, ordine imposto dal maschio. Otello e il femminicidio, in un carcere/teatro: secondo cortocircuito emotivo di grande pregnanza ma che si perde nella molteplicità e frammentazione di quest’opera, che non sembra riuscire ad approfondire nessuna delle tante, forse troppe sottotracce narrative e la molteplicità degli elementi scenografici. Così come il gesto ripetuto del suicida o quello di coloro che salgono le scale per raggiungere la loro croce (elemento simbolico di facile interpretazione), che si svuotano di senso in quanto la stessa ripetizione ne prosciuga la forza.
Lo spettacolo procede lento, con un ritmo che rimanda ai tempi orientali del passato – visto che oggi quegli stessi Paesi corrono veloci come fulmini verso quel futuro che noi forse vorremmo diverso e più vivibile. Un tempo futuro che anche il Bardo sembrava presagire funesto, tramontata l’età d’oro elisabettiana.
Un utilizzo di comparse opulento, accettabile solo per dare la possibilità a coloro che vivono quotidianamente il tempo sospeso (e, quindi, interminabile), di rompere il cerchio della monotonia carceraria che li attanaglia – anche se Punzo regista ha sempre rifiutato la funzione pedagogica per il suo teatro.
Meno comprensibili le figure altre, esterne a questo muro (donne e bambini), inutili e insulse – estranee al carcere così come al teatro elisabettiano, recitato solo da maschi – per uno spettacolo che lascia perplessi per la sua opulenza, paragonabile al barocchismo colto di Greenaway o alla magnificenza di cartapesta della Cleopatra hollywoodiana; e per la mancanza di un filo narrativo coeso. Fil rouge che si rintraccia, al contrario, ascoltando gli ultimi frammenti recitati con pacatezza dall’attore in cima alla scala (dotato di una presenza scenica notevole), che si scaglia contro l’autore, colui che l’ha tradito – come Roy Batty quando uccide il suo creatore/dio, il dottor Tyrell.
E come in Blade Runner, la fine emblematica è su “quei momenti (che) andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”, ossia in quei frammenti di brani che si perdono nel vento, come le pagine che Prospero/Bardo/Punzo strappa e disperde nell’arena affollata di fantasmi, ormai senza voce.

A seguire, I concittadini ideali – un’erudita variante della stand-up comedy. A ruota libera, Massimiliano Civica ci racconta i suoi incontri con Peter Brook ed Emanuele Luzzati, le lezioni di Camilleri, aneddoti da biografie celebri, fa qualche rimbrotto a Matteo Renzi e conclude leggendo un paio di passaggi da Religione Aperta di Aldo Capitini (che, oltre ai sette citati da Civica, hanno letto tutti quelli che hanno studiato filosofia morale, sono vegetariani o espongono la bandiera per la pace, simbolo di opposizione a tutte le guerre fin dal ’61, quando Capitini organizzò la prima Perugia/Assisi).
A parte le illustri conoscenze del maestro Civica, le freddure di Robert Mitchum (peccato abbia citato non esattamente quella su Rin Tin Tin ed evitato quella sul Vietnam: “If they won’t listen to reason over there, just kill ‘em. Nuke ‘em all”, che, per brevità, tradurremo: “se non ascoltano ragioni, ammazzali”) e vari aforismi celebri, cos’altro abbiamo appreso dalla lezione? Sicuramente due inesattezze.
La prima riguarda l’effetto Kulešov. Massimiliano Civica afferma che il regista russo abbia mostrato al pubblico il fotogramma di un vecchio che rideva, seguito da una torta e da una donna nuda. Nel primo caso, il pubblico si commuoveva per la tenerezza, pensando che il vecchio godesse della piccola gioia di un dolce; nel secondo inorridiva, qualificando il vecchio come lascivo. In realtà, Kulešov – volendo dimostrare l’importanza del montaggio – mostrò un primo piano di un attore privo di qualsivoglia espressione particolare, seguito dal fotogramma di una scodella di zuppa, un cadavere e una bambina che gioca. Nel primo esperimento, gli spettatori affermarono di avere “visto” negli occhi dell’attore la fame; nel secondo, la tristezza; e, nell’ultimo, l’allegria. Immaginandosi del tutto, quindi, e non interpretando (come raccontato da Civica) una qualche espressione.
La seconda inesattezza riguarda la teoria quantistica. Senza addentrarci nei meandri della fisica, puntualizzeremo come, in primis, anche pensatori laici (e non solo mistici), quali gli atomisti, abbiano ipotizzato teorie non misurabili o visibili (causa la limitatezza della tecnologia nella Grecia del VI° secolo a. C.), che poi si sono dimostrate valide. E inoltre, la teoria quantistica si dice tale perché ancora non comprovata. È quindi un errore darla per assodata, quando la stessa non è – a differenza, ad esempio, della legge di gravitazione universale – verificata scientificamente.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno di VolterraTeatro 2016:
Volterra, varie location
fino a domenica 31 luglio

giovedì 28 luglio, ore 15.00
Fortezza di Volterra
La Compagnia della Fortezza presenta:
Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare
regia e drammaturgia Armando Punzo

ore 17.00
Teatro Persio Flacco di Volterra
Massimiliano Civica presenta:
I concittadini ideali