Una tragedia maschilista

Grande prova d’attrice per Francesca Benedetti in una riscrittura maschilista delle tragedie di Euripide Le troiane ed Ecuba, dove gli uomini interpretano anche i personaggi femminili, ridotti a maschere grottesche, mentre Ecuba è relegata al ruolo di donna sofferente.

I miti, all’interno dei quale agiscono le storie raccontate dalle tragedie attiche, costituivano un condiviso immaginario collettivo – per i cittadini ateniesi che vi assistevano – delle elaborazioni mitografiche, nelle quali problemi di diversa natura (politica, morale, sacrale) venivano elaborati e, in qualche modo, “risolti”. Basti pensare, per fare un solo esempio, all’impatto che dovette avere Le troiane portando in scena lo scempio della guerra di Troia – visto dal punto di vista delle donne di quella città che subiscono la violenza dei vincitori greci – pochi mesi dopo l’eccidio ateniese dell’isola di Melo che, rea di non volersi alleare con Atene, venne messa a ferro e fuoco e le donne vennero rese schiave proprio come succede a quelle della tragedia. Oggi noi possiamo solo ipotizzare come reagissero, cosa pensassero gli spettatori di allora.
Per questo è quasi un percorso obbligato quello che vede metteur en scène e autori rielaborare la tessitura tragica originale per cercare di avvicinarci a un sentire così diverso dal nostro, non solo per la distanza storica ma anche per i valori, la mentalità e i concetti così diversi dalla nostra cultura. La drammaturgia diviene così una sorta di interfaccia fra la tragedia e noi pubblico moderno.

Il testo di Riccardo Reim, appositamente scritto per Francesca Benedetti, confronta e contamina le vicende delle tragedie Ecuba e Le troiane col nostro passato recente, giustapponendo i fatti raccontati da Euripide a quelli dell’eccidio nazista nei campi di concentramento ai danni degli ebrei (tacendo quello a danno delle tante altre vittime) e altri eccidi (su una valigia leggiamo scritto “Siria”) che hanno colpito varie parti del Pianeta.

In questo nuovo contesto Ecuba è una moderna senzatetto che dorme all’addiaccio vicino a due carrelli per la spesa pieni di stracci, in una scena disseminata da oggetti, scale, scatoloni, una carrozzina listata a lutto, bambole spoglie e senza capelli, vecchi giornali, pezzi di legno, cornici. Tra questi resti diversi simboli immediatamente riconoscibili: da un frammento di Guernica di Picasso alle svastiche naziste, dai cartelloni di propaganda tedeschi alla scritta che campeggiava all’ingresso dei lager Arbeit macht frei, mal tradotta in italiano con “il lavoro nobilita l’uomo” e non, come dice veramente, “il lavoro rende liberi”.
Una visione strabica nella quale manca qualunque riferimento al nostro passato fascista, che pure ha contribuito a quell’eccidio, e dove il confronto con la contemporaneità sembra scalzare il mondo classico. A Ecuba viene detto di stare zitta, che lei non capisce nulla del presente e che il modo in cui concepiamo oggi la guerra è obsoleto, perché ormai la guerra non la si fa con le armi ma con la finanza e le banche. Anche il teatro sembra subire la stessa sorte di obsolescenza se i continui riferimenti di Ecuba al teatro che «è stato distrutto» possono essere letti in termini metaforici.
Un parallelo parziale – e un po’ prevedibile – che pone lo spettatore dinanzi a una doppia incapacità: quella di capire il mondo classico della tragedia e quella di capire il mondo contemporaneo, così diverso da quello del secolo appena scorso, l’unico del quale sembra sappiamo qualcosa.

Purtroppo l’ingombrante icasticità dell’eccidio nazista, presentato esclusivamente attraverso la retorica dei simboli (la stella di David) e delle azioni violente, cancella del tutto la vicenda greca ridotta a mero pretesto per parlare d’altro.
Reim trasforma l’Ecuba greca, vedova di Priamo e regina della caduta città di Troia, diventata pazza per la morte degli ultimi due figli e che si fa vendetta da sola, in una donna invidiosa di Elena, che ha giaciuto con suo figlio Paride, alla quale dice chiaramente che, fosse stata più giovane, si sarebbe volentieri sostituita a lei. A questa Ecuba piace masturbare i ragazzini ebrei nel cortile del collegio – letterale nel testo – il cui segno della circoncisione la eccita. Per Ecuba Elena è una poco di buono perché ha ricevuto «metri di carne eretta» (una volgare, perché ovvia, metafora del membro maschile) tra le gambe. Un modo non proprio elegante e rispettoso di criticare una donna, vista come assatanata di sesso (ben diversamente dal mito) in una fantasia maschile e maschilista che nulla ha a che fare con Euripide e il mondo antico.
Maschili e maschilisti anche i continui riferimenti fallocratici che accennano all’erezione, al rigonfiamento delle zone pelviche degli uomini, impiegato come segno di eccitazione, desiderio o persino di amore.
A ribadire il maschilismo del testo la scelta (non sappiamo se dell’autore o del regista) di far interpretare tutti gli altri personaggi, compresi quelli femminili, a cinque uomini.
Scelta che non nasce certo da un improvviso rispetto per la filologia – nel teatro attico, come in quello elisabettiano, potevano recitare solamente gli uomini – altrimenti non si giustificherebbe la presenza di Francesca Benedetti nel ruolo di Ecuba.
Benedetti è l’unica donna in scena, circondata da cinque attori, due dei quali molto giovani, che indossano vesti aperte che lasciano generosamente intravedere degli slip che evidenziano la loro virilità, in un sinergico richiamo di dettagli fallici del tutto gratuito.
Nell’economia del testo questa invadenza maschile di uomini che si accaparrano anche i ruoli femminili contrasta con lo spirito delle tragedie che vede le donne vere protagoniste.
Una scelta che raggiunge il grottesco quando Elena, la donna più bella del mondo antico, quella che ha causato la guerra tra greci e troiani, viene fatta interpretare a un attore che ce la propone filtrata attraverso la macchietta dell’omosessuale effeminato e affettato, che ci restituisce un femminino distorto e grottesco che solo un uomo può pensare sia “femminile”:
Elena ha la voce leziosa, si lecca le labbra continuamente, indossa orecchini di plastica celesti, incarnata da un attore dal corpo inequivocabilmente maschile.
È questa Elena che dice a Ecuba di stare zitta perché «non capisce niente».
E mentre i cinque attori interpretano tutti i personaggi facendo proseguire la storia con racconti, resoconti, descrizioni e commenti, Ecuba viene sempre più relegata alla sola funzione della lamentatio, come se le donne non potessero far altro che incarnare ieraticamente la sofferenza “mariana” della Madre di Cristo.
In maniera ben diversa dall’Ecuba di Euripide che si vendica di Polimestore, Re di Tracia, l’assassino di Polidoro, l’ultimo figlio rimastole in vita, che la donna gli aveva affidato, accecandolo e uccidendogli i figli a sua volta, vendetta che persino Agamennone reputa legittima.
Per cui, paradossalmente, è il testo di Reim a sembrare antico, così irrimediabilmente ancorato com’è a un patriarcato stantio e irricevibile mentre il testo di Euripide (che in scena non c’è) spicca in tutto il suo afflato antimilitarista e “femminista”.
Il talento, squisito e fin troppo generoso, di Francesca Benedetti – il regista la costringe persino a mettersi una mano tra le gambe dopo avere alzato la gonna – avrebbe meritato un testo che ha della donna ben altra considerazione, ma visto che l’attrice ha accettato di recitarlo, vi avrà sicuramente visto qualità che sono sfuggite completamente a chi scrive.

Lo spettacolo continua:
Colosseo Nuovo Teatro
via Capo d’Africa 29/a
fino a domenica 6 maggio, ore 21.00

Associazione Culturale Musicale BEAT 72 presenta
Ecuba. La Nausea e la Strage
liberamente tratto da Ecuba e Le Troiane di Euripide
di Riccardo Reim
regia Beppe Menegatti
con Francesca Benedetti, Raffaele Latagliata, Pier Luigi Pizzetti, Andrea Volpetti, Roberto Bisacco, Fabio Crisafi