Eimuntas Nekrošius è scomparso il 20 novembre 2018, il giorno prima del suo sessantaseiesimo compleanno, a Vilnius. Provava Edipo a Colono di Sofocle per il Festival di Napoli.

Con la morte prematura di Eimuntas Nekrošius (1952-2018) a Vilnius, la capitale lituana dove viveva e aveva fondato la compagnia teatrale Meno fortas (la Fortezza dell’Arte), sparisce uno dei Maestri della scena. La sua fama internazionale inizia con Pirosmani, Pirosmani di Vadim Korastylëv nel 1981 (in Italia però arriva al Teatro Due di Parma solo nell’89), uno spettacolo che aveva affascinato persino Arthur Miller, che sognava di portarlo a New York. Nell’ultimo decennio del secolo scorso firma spettacoli indimenticabili come Le tre sorelle di Anton Cechov, la trilogia shakespeariana Amletas, Makbetas e Otelas. In seguito la sua attività si è arricchita e intensificata, passando dal Faust di Goethe, dalle trascrizioni da Tolstoj e Dostoevskij, dalla Divina Commedia all’opera lirica, Il Macbeth di Verdi, Il Faust di Gounod, la Walkiria di Wagner, e un immancabile Boris Godunov (nel 2005 a Firenze), lasciandoci però la sensazione che quello stile in cui prodigiosamente convivevano gelo e calore si fosse cristallizzato in una maniera.

Per definire Nekrošius è necessario partire dalla sua formazione, che ha avuto luogo negli anni ‘70 a Mosca, dove la tecnica di Stanislavskij era ancora insegnata da allievi diretti del Maestro. Per quanto il regista abbia dichiarato più volte di non avere un sistema né regole, la sua discendenza dal metodo delle azioni fisiche dell’ultimo Stanislavskij è indiscutibile, così come il dato storico che la cortina di ferro, tenendolo lontano dalle interpretazioni che in quegli anni Grotowski, Barba e altri ne ricavavano, gli ha permesso di elaborarli in modo originale. Ecco perché i suoi spettacoli, pur costruendosi come una partitura di azioni fisiche, non possono essere spezzettati in micro-azioni: il suo teatro è un flusso vitale che, una volta messo in moto, procede senza soluzioni di continuità fino al suo esaurimento alla conclusione dello spettacolo.
Nekrošius parte sempre dalle improvvisazioni, riducendo il testo all’essenziale ma arricchendolo delle sollecitazioni che alcuni oggetti suggeriscono agli attori. Nelle Tre sorelle, per esempio erano gli attrezzi ginnici, che, pur essendo all’inizio un po’ incongrui, a poco a poco venivano inglobati nell’azione, permettendo al regista di squarciare la crosta elegiaca con cui la tradizione ha nel tempo ricoperto il testo di Cechov e riscoprendo una nuova e autentica verità dell’azione. Ne consegue che negli spettacoli di Nekrošius non ci sia una scenografia unitaria, ma degli oggetti scenici dalla forte valenza simbolica, talvolta conquistata nel corso dello spettacolo, che vengono usati a seconda della necessità. Questo però non comporta poca attenzione all’immagine, anzi. Anche perché in Nekrošius l’impaginazione è molto curata e non disdegna gli effetti: luci impeccabili dai forti contrasti, rumori, musiche dilaganti, spesso tratte dalla tradizione melodrammatica, con l’intento di aggiungere pathos all’intensità sentimentale che la recitazione ha già attivato.
Il regista, ricordando con orgoglio le sue origini lituane («Noi abbiamo una storia diversa dal resto dell’Europa. Noi non siamo né francesi né inglesi. Siamo cresciuti nei campi di patate») si concentra su simboli primordiali del mondo naturale: acqua, fuoco, pietre, che soprattutto nella trilogia shakespeariana acquistano una notevole forza espressiva. Così nel bellissimo Amletas il celebre monologo è recitato da Andrius Mamontovas (non un attore, ma una rockstar lituana, scelta proprio perché immagine vivente della ribellione giovanile) sotto un lampadario di candele su cui un grosso blocco di ghiaccio si fonde. La riflessione di Amleto sulla morte e sulla vita è resa viva dalle reazioni all’acqua fredda che sgronda, alla cera bollente che contemporaneamente si scioglie: il disagio non è recitato, ma ogni sera è sofferto in corpore vili.
Così la sedia a dondolo su cui si accomoda lo spettro che prende fuoco, la sega, la ruota dentata sospesa ricostruiscono i duri rapporti sociali all’interno della reggia e, anche se il regista si dichiara indifferente al discorso politico e alieno da facili riferimenti alla contemporaneità, difficilmente si è visto un Amleto in cui la condanna dei meccanismi crudeli del potere sia così esplicita. Il fuoco dello spettro si contrappone al freddo del metallo, al ghiaccio che si scioglie, all’acqua che riempie grandi calici fragilissimi o piove nebulizzata dalla graticcia.
Nekrošius ama gli elementi opposti, che rimandano alla natura della sua terra e costruiscono un amore per i contrasti che lo rendono un Maestro dell’ossimoro: l’eleganza stilizzata della partitura fisica convive con la lettura psicologica dei personaggi, le azioni fisiche più faticose e acrobatiche riescono a tradurre i più fragili moti dell’animo, ogni cosa sembra esplicita, ma in realtà sulla scena è solamente l’implicito a occupare lo spazio: l’anima si fa corpo e quei corpi in perenne movimento sono anime in pena, che potrebbero abitare un romanzo di Dostoevskij. Non solo, ma la visione tragica dell’esistenza convive con un’ironia caustica e irresistibile.

Tutto ciò fa di Nekrošius un regista inimitabile e senza allievi. Non che non ci siano stati tentativi di ispirarsi al suo stile, tutt’altro, ma uno spettacolo à la Nekrošius si riduce sempre a una riproduzione della scorza. Negli allievi mancano le rughe profonde che solcavano il suo volto, lo sguardo azzurro impenetrabile di questo lituano vissuto in un campo di patate.