Si preannuncia una stagione teatrale impegnativa per l’Elfo. Il trasloco al Puccini, una serie di proposte di rottura, l’impegno a vivere il teatro come luogo sociale.

Una scommessa rischiosa: ricominciare dal teatro, dal sé, dalla comunicazione tra esseri umani in un’epoca e in un Paese ormai alla deriva. Quanto deve essere parso strano agli statunitensi vedersi ritratti in Bowling a Columbine, ad esempio?

Quanto mi è parso straniante, scoprire il volto di quell’Italia che quotidianamente mi dovrebbe rappresentare sul piccolo schermo, in Videocracy.

Una società dell’apparire dove non conta cosa si sa fare o cosa si pensa – sempre che qualcosa si sappia fare e qualcosa si sia ancora in grado di pensare.

Wahrol docet: contano solamente i famosi 15 minuti di celebrità, strappati al mezzo mediatico sviscerando le incomprensioni vere o presunte con il proprio coniuge davanti a una platea chiassosa; esibendo il corpo con la stessa mancanza di rispetto verso se stesse di chi è costretta a nasconderlo sotto dei veli perché quel corpo non le appartiene; fingendo crisi emotive, scenate isteriche, flirt e abboccamenti. In questo deserto i cui tratti sono gonfiati dal botolino, cosa può fare il teatro?

L’Elfo quest’anno ci riprova e scommette perfino su un teatro completamente rinnovato, il Puccini, che sarà inaugurato a marzo: tre sale, da 500, 200 e 100 posti, la possibilità di adattare quindi gli spazi alle esigenze dello spettacolo o a quelle di una maggiore intimità e interazione con gli spettatori.

Un panorama ricco di proposte, prima fra tutte, la seconda parte di Angels in America, lo splendido lavoro di Tony Kushner, mai così attuale come in questi mesi in cui si discute di omofobia, come fosse una gentile concessione non garantire i diritti bensì evitare le violenze contro gay, lesbiche e trans.

E ancora così attuale in un Paese dove si discute del fine vita dimentichi del rispetto per la libertà di scelta degli individui, pronti a condannare gli Stati etici per poi rivelarsi altrettanto repressivi grazie all’abuso delle parole: non più diritti civili ma temi etici, non più libertà di scelta ma rispetto per la verità – che è sempre e solo una.

Tanti spunti, lontani dalle strade facilmente percorribili, quelle sulle quali si rincorrono a colpi di audience reti pubbliche e private.

Da Libri da ardere a La presidentessa, per la regia di Massimo Castri, che non ha mai fatto sconti a nessuno; da un felice ritorno, La caccia, nell’interpretazione e la reinterpretazione di Luigi Lo Cascio, a La notte poco prima della foresta di Bernard Marie Koltès, autore anche lui mai così attuale.

Spunti, solo spunti per spegnere la tv e uscire di casa. Strano che a proposito mi venga in mente un’affermazione che Mike Bongiorno aveva rilasciato in un’intervista trasmessa in questi giorni da La7.

Lui, il padre della televisione, ricordava gli anni ’60 – naturalmente solo fino al ’68 – quando tutte le sere usciva e camminava in una Milano illuminata, viva e vivace ancora alle 3 del mattino, dove addirittura poteva cenare a quell’ora antelucana ed era un brulicare di gente a passaggio, che rideva, chiacchierava, si divertiva.

Strane queste parole, anch’esse stranianti, pronunciate da un protagonista di quel mezzo televisivo che ci ha assopito in casa, pronunciate in un’epoca in cui è vietato sedersi su una panchina a mangiare un panino, fermarsi fuori da un bar a bere una birra o fumare una sigaretta, riposarsi sui gradini di una chiesa perché si fa casino e Milano è una città che lavora, che si alza presto e va a letto con le galline…

Scommettere sul teatro significa anche scommettere sugli spettatori, che escano da quelle case e tornino non solamente a teatro ma si impossessino nuovamente della loro città, delle sue vie dove nemmeno la nebbia ama più soggiornare perché non vi sono corpi a fenderla, penetrarla, respirarla.

Una scommessa anche perché si sa che i fondi pubblici per la cultura continuano a diminuire e, in questo caso, la ristrutturazione del Puccini è avvenuta anche grazie ad essi, quindi di noi tutti che, per questo, ancora di più abbiamo il diritto e dovere di partecipare a quel rito collettivo ancestrale che è vivere il teatro. Noi ci saremo e speriamo di essere in tanti.