Sulla schizofrenia americana

Al Teatro Palladium in scena Erano tutti miei figli, l’opera che racconta l’irrisolvibile contraddizione che alimenta lo spirito americano.

Il destino di Arthur Miller e la sua fama nel corso della seconda metà del Novecento sono quantomeno degni di attenzione, per non dire stravaganti; la parabola esistenziale e artistica di Miller, infatti, racconta l’America del tardo-capitalismo. Una riflessione, sul post Seconda Guerra Mondiale, condotto con lucidità e in maniera, per certi versi, spietata, perché esprime al meglio il ruolo che l’industria culturale e il culto dell’immagine hanno assunto in qualsiasi sfera della vita sociale. Arthur Miller è a oggi uno dei nomi di riferimento della letteratura americana del Novecento, assieme a Tennessee Williams, O’Neill e Capote. Maestro della drammaturgia realista statunitense, capace di spostare il baricentro della produzione teatrale moderna dall’Europa agli States, Miller, però, realizzò una manciata di pièce, una per decennio, diventando celebre per Morte di un commesso viaggiatore del 1949, riscontrando poi un discreto successo come sceneggiatore e giornalista.

La sua fama esplose, letteralmente, per via della sua storia d’amore con Marilyn Monroe e con la vicenda relativa al figlio down, mai riconosciuto, nel suo successivo matrimonio. Eppure il realismo milleriano, erede d’oltreoceano dell’opera di Cechov e Ibsen, nonché della tradizione del Kammerspiel (dove l’azione quasi assente si riduce alla tensione verbale e psicologica di personaggi rinchiusi in interni borghesi, ognuno coi propri scheletri nell’armadio, i propri rimorsi e le proprie colpe da espiare), è intriso di senso critico e polemico nei confronti di quella società americana che gli aveva dato la notorietà e il successo. Si tratta di una paradigmatica schizofrenia che caratterizza lo spirito americano da sempre; ed è come se Miller ne fosse ben cosciente, dato che ne fu fulcro tematico delle sue opere; questo è il caso di Erano tutti miei figli, portato in scena al Teatro Palladium da Giuseppe Dipasquale fino al 21 febbraio.

Una scenografia statica, un interno altoborghese espressione di una civiltà ferita a morte, non solo dalla guerra, ma da una crisi di valori che, però, è la quintessenza dell’America stessa: la guerra è finita da pochissimo, anche i vincitori hanno poco da gioire per la vittoria, perché essa ha messo in mostra  l’inconciliabilità di due dimensioni tipiche dell’America. Da un lato, il fondamento della loro civiltà, ovvero il mercato, l’individualismo, il liberalismo economico, dall’altro il baluardo americano dell’orgoglio nazionale, la famiglia, la comunità. Le vicende dei personaggi di Erano tutti miei figli, spietatamente, mettono in mostra questa incongruenza nevrotica e costante; e dal caso particolare assurgono a messaggio relativo di e su tutta una generazione. L’opera, oggi, assume un significato come documento di un’epoca, ma anche come strumento di comprensione di un popolo che non ha fatto in tempo a vincere una guerra che si ritrova coi propri mostri. Si trova chiuso nel recinto di una veranda che, per quanto all’aperto, in realtà, comunica asfissia e claustrofobia, tra le intemperie e l’incapacità sia di dimenticare che di costruire. Il testo di Miller, intenso, ma per molti versi ingenuo e didascalico a pensare ciò che già negli anni ’40 faceva il teatro europeo (e non solo), non aiuta a rendere convincente lo spettacolo: per un attore la cosa più difficile è innegabilmente recitare una pièce di impronta naturalista, perché dimostrarsi spontaneo sul palco è la sfida decisiva. Gli attori dello spettacolo, eccezion fatta per Mariano Rigillo nella parte di Joe Keller, non riescono in questo intento, dimostrandosi eccessivi nei gesti, nel tono delle battute, nonché artificiosi nell’espressione dei sentimenti e degli stati d’animo. Anche la bravissima Anna Teresa Rossini (nei panni di Kate Keller) sembra fuori le righe, finta nel suo pathos spinto all’eccesso.

In alcuni casi, potremmo anche pensare che tale artificiosità (come lo stile pin-up delle ragazze) sia una sorta di raddoppiamento finzionale: recitare gente che recita, perché la società americana non è altro che un grande teatro fatto di ipocrisie. Quando, però, i personaggi mostrano il loro vero essere, dinanzi al dramma della consapevolezza della morte di un figlio o alla scoperta della responsabilità della morte di numerosi ragazzi, lì, l’autenticità sfugge per una recitazione che pretendendo il naturalismo scade nell’irrealtà, impedendo una effettiva catarsi o una qualche forma di coinvolgimento. Forse, i limiti dello spettacolo sono i limiti dell’arte di Arthur Miller, ma che sono anche i limiti della cultura schizofrenica degli Stati Uniti.

Lo spettacolo è ancora in scena:
Teatro Palladium
Piazza Bartolomeo Romano, 8 – Roma
dal 10 al 21 febbraio

Teatro Stabile Catania presenta
Erano tutti miei figli
di Arthur Miller
regia Giuseppe Dipasquale
scene Antonio Fiorentino
costumi Silvia Polidori
luci Franco Buzzanca
con Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Ruben Rigillo, Silvia Siravo, Filippo Brazzaventre, Barbare Gallo, Enzo Gambino, Annalisa Canfora, Giorgio Musumeci