Dialoghi del cuscino

Arriviamo in serata in un Istituto tecnico a Cinecittà. Dov’è il teatro? Si deve salire un piano. La sala teatrale di fatto è ricavata da una grande aula conferenze. La prima lezione è questa: proprio da tanta improbabilità, può sorgere l’inaspettato.

Siamo all’Accademia Popolare dell’antimafia e dei diritti, nata circa tre anni fa come un progetto di educazione contro la dispersione scolastica. Si è evoluta in breve con uno spazio teatrale e un cineforum, trovando casa all’interno dell’Istituto tecnico Enzo Ferrari. Di fatto il centro è un hub culturale a disposizione del quartiere. I ragazzi possono venire qui a studiare, leggere, ritrovarsi, fare esperienze culturali e di aggregazione.

Dal cartellone di AP Teatro, ci accostiamo all’anteprima nazionale di Supernova, spettacolo della compagnia partenopea I pesci. Di fatto si tratta di un tragico corpo a corpo tra una madre e tre fratelli, tra un sole materno dotato di grande massa, e tre pianeti che cercano di sfuggire all’attrazione gravitazionale di una stella morente.

L’aspetto originale dell’opera è senza dubbio l’utilizzo di alcune forme della tragedia classica. In Supernova, lo sgomento di essere esposti a potenze che trascendono ogni volontà, ogni coscienza, ogni rassicurante dimensione sociale, colpisce al buio lo spettatore da subito. Una donna colloca degli oggetti sulla scena, mentre nell’ombra alle sue spalle, un coro di tre corpi intona un pàrodos (a cui come vedremo corrisponderà un coro di voci al centro dell’opera, fino a un complementare éxodos nel finale). Si tratta di una musica muta, simile a una composizione dodecafonica, obliqua, che fa presagire l’entrata in scena di un convitato di pietra, di una potenza d’angoscia che sarà il nucleo esplosivo della tragedia. La donna che danza su quel tappeto sonoro è la deità sotto alla quale i protagonisti gettano la propria vita.

Se nel pàrodos il coro non ha parola, ecco che può far danzare il femminile con la presentificazione in scena di un’angustia morale soffocante, ossia l’angoscia con la quale la madre incatena i figli al laccio familiare. Questo assume – dicevamo – un canto muto il quale, nella sua ingenua semplicità, diviene teatro di suoni e rumori dove trova spazio tutta la folle logica della vita, a tal punto da ricordare vagamente il requiem di György Ligeti che accompagna il viaggio del cosmonauta dentro il monolito in 2001: Odissea nello spazio, oppure il florilegio di blues obliqui che ascoltiamo in True detective, soprattutto nella prima e terza stagione.

Se la tragedia greca poteva inizialmente essere schematizzata come un dialogo tra eroe e coro, in Supernova il nucleo tragico si presenta da subito come impossibilità dialettica. Gli eroi (i figli della dea, Massimo, Cristopher e Italo) non hanno parola. La donna che danza sulle note della loro angoscia, è una madre malata che ha perso la memoria, senza tuttavia allentare – come direbbe Lacan – le fauci di coccodrillo sui tre figli.

È interessante l’utilizzo che la compagnia fa di un coro a commento dell’azione scenica. Se alcuni studiosi collocano il coro come la voce della Polis, era Nietzsche in Nascita della tragedia a immaginare il coro tragico animato da una musica simile a un mormorio. Per Nietzsche rappresentava la potenza della natura, qualcosa di analogo al brusio erinnico, scatenato dal matricidio di Oreste. Il coro tragico è espressione del dionisiaco, ossia del mondo caotico degli impulsi profondi, giacché l’uomo si sente preda delle potenze della natura, cui cede ogni pretesa di soggettività, abdicando alla propria hybris.

È musica inquietante (le erinni sono le divinità della vendetta, assetate di sangue, sciamanti intorno al colpevole), che raramente in teatro è possibile ascoltare, essendo la musica per lo più utilizzata a sostegno degli stati emotivi dei personaggi, per accentuare certi passaggi drammatici, per accompagnare in senso sentimentale la transizione narrativa.

Un secondo coro si comporrà al centro dell’opera, in seguito al ritorno di Massimo dall’esilio volontario che lo vedrà lontano per sette anni. I tre fratelli si riuniranno, ricomponendo allo stesso tempo l’angoscia, che come un fantasma canterà ora un coro significante di recriminazioni, risentimenti e rimpianti, mentre la deità femminile morente si agiterà sulla scena. La danza stavolta sembra quella di un burattino tirato da fili. Sono parole che vorticano, sibilano, colpiscono. È un coro di parole che cercano di prendere le distanze dalla “stella danzante”, ma si risolvono in una sensazione rumorosa di un parlamento “rotto”, che ha perso la fiducia di essere amato.

A questo secondo coro, Massimo partecipa ammettendo un’estraneità familiare (“Appartenersi e non riconoscersi” grida), Cristopher il proprio disagio di non essere stato finito, di essere stato mandato anzitempo e senza strumenti nella competizione sociale (“perché io non ci riesco”); Italo canta il risentimento di essere il solo ad avere un mestiere, sentito come una condanna.

I corpi degli attori emergono in tutta la loro sonora presenza. Luca Sangiovanni interpreta Cristopher, il figlio disabile, inadatto al lavoro, alla fatica, a sorreggere il peso condominiale della famiglia. Questo è tutto sulle spalle di Italo (Alessandro Gioia), dal momento in cui Massimo (Fiorenzo Madonna), intelligente e appassionato di astrofisica, deciderà di recidere il cordone ombelicale (suo padre non può farlo) per studiare in terre più ricche di possibilità.

Lo spartito sonoro della tragedia è dolce nella parlata (chiara, musicale come solo può esserlo il napoletano). È ritmico, allusivo di una fine il cui nucleo è alle spalle, e di cui si tratta di celebrare finalmente la cerimonia funebre. La drammaturgia genera un sorprendente richiamo ai destini a cui tutti siamo assoggettati senza pietà, tenuti in vita da un risentimento duro come cemento.

Supernova lascia al palato il sapore di un suggestivo mix tra Beckett e crudeltà artaudiana, addolcita dalla pietas tipica del teatro di Eduardo.

Supernova I Pesci

Se il destino è scoperto alle spalle, il tempo diviene nodo tragico. Massimo è un nome che impone un’eccellenza da portare come un marchio. Cristopher doveva chiamarsi Highlander, sulla scorta del film con Cristopher Lambert: si è ripiegato sul nome dell’attore, finendo per chiamarsi come portatore di Cristo. Italo, il terzo fratello, ha un nome che rimanda a una patria, ma anche a tutti i treni perduti. Di fronte alle attese fissate nel nome, ogni figlio si è trovato a dover per necessità sottoporre il desiderio genitoriale a un capovolgimento retorico, facendo della propria vita un ossimoro ironico.

Massimo, obbedendo al proprio nome, partirà, avendo i talenti per farlo. Cristopher rimarrà in uno stato infantile, rappresentato dall’isolarsi, dal passare il tempo a mirare la collezione di figurine che promette un sorteggio a premi. Italo rimane da solo a sostenere il nucleo, ora che il padre è morto. Lavora al panificio di famiglia, covando risentimento verso il fratello fuggito, verso quello che non riesce a lavorare, verso il padre morto in maniera ridicola, e verso sua madre, rimasta come un sole che non splende più, non scalda più. È quello che resta di una stella dopo il suo collasso, un buco nero, un nucleo disseccato che risucchia dentro di sé luce, tempo, affetti, desideri, speranze.

Sette anni dopo la separazione, i tre si ritrovano al capezzale della madre. La realtà è immutata, presa al laccio di un tempo tragico, vera potenza d’attrazione, contro di cui a niente vale cercare di fuggire. Massimo lo ha fatto, è fuggito, ma ora che è tornato, sembra che sette anni si siano consumati in un soffio, secondo il principio per il quale quanto più aumenta la nostra velocità di fuga nello spazio (rapportata a quella della luce), tanto più il tempo rallenta.

I corpi e le voci degli attori colmano il vuoto che sta per il freddo cosmico, quel freddo vitale che impone la propria soggettivazione, lontano dalle fauci di una madre che per sentirsi piena vieta ai figli di uscire dalla pancia, imponendo un calore innaturale. Massimo intuisce la “mancanza” materna, quella che si tratta di turare col proprio corpo, con la propria anima, dandosi come figli devoti, che mai lasceranno una madre depressa, capace di generare la vita, ma non di darla.

È possibile conoscere il femminile solo come puttana, giacché una donna singolare, in carne e ossa, avvicina al proprio desiderio che tuttavia deve restare insoddisfatto, per non ferire l’altra donna chiamata madre. Il padre che va a puttane, che vi accompagna il figlio disabile («Ti faccio conoscere il mondo»), scatena l’ira di Massimo, l’unico che insegue lo strappo per poter prendere il largo. «Se non riesci a essere puttana con papà – urla contro sua madre che non può ascoltarlo -, allora sei meno di una puttana».

Il paradiso è un posto in cui i desideri diverranno realtà, quel luogo dove Cristopher vincerà il premio promesso dalle figurine. Massimo e Italo però non credono a un posto siffatto. Dio è una necessaria illusione, un modo cioè per costruirsi un senso, proprio lì dove ne prevale l’assenza. «Farsi fuori con le proprie mani» è un’espressione che usa Massimo, con un significato tragicamente doppio, giacché farsi fuori vuol dire certo liberarsi da una stretta mortale, ma anche annullarsi, indugiando a un’idea suicida. Massimo vede nella mappa del cielo, segnata dai puntini luminosi, la via topografica per intraprendere un’impresa di liberazione.

La drammaturgia è intensa, con un ritmo musicale tipico della commedia napoletana, ma che qui non trova sfogo in nessuna situazione macchiettistica; mette al guinzaglio ogni tentazione parodistica, aggrumando la narrazione intorno ai tre momenti del coro, intensissimi, sopra cui gli autori costruiscono l’acme: inquietante il primo; rabbioso il secondo; dolcissimo nel cadente finale.

Le sagome degli interpreti maschili sono irrigidite nell’immobilità emotiva. Luca Sangiovanni (Cristopher) utilizza la propria imponente figura come una presenza iconica impressionante, che rimanda al corpo non curato, non amato, non voluto. È colui che si deve portare da sé stesso: portando il Cristo, deve portare anche la sua croce. Fiorenzo Madonna dà al personaggio di Massimo il ghigno amaro di colui che sa, e sapendo, si trova a non potersene fare nulla di tanta dottrina. Alessandro Gioia costruisce Italo come colui che trattiene una rabbia esondante, che se espressa trascinerebbe con sé l’universo intero. Lia Gusein-Zadé colora il corpo materno di una leggerezza troppo pesante da sostenere per i tre uomini, la leggerezza di chi si è sbarazzata di tutto, non avendo una legge (suo marito è morto) che possa far da limite al suo istinto fusionale.

Di fronte al tempo aberrante che si avventa sui corpi, lasciandoli come in preda a una consapevolezza epilettica, si può opporre solo il gioco degli attori. L’apollineo è il teatro per come lo conosciamo, cioè lo snodarsi regolare di una narrazione, con un principio e una fine, marcata quest’ultima da un finale catartico che illude sulla capacità umana di andare contro un destino. Gli autori hanno in spregio qualunque tipo di consolazione possa sorgere dal teatro, concependo l’arte piuttosto come una cosmonave che si lascia prendere dalla terribile gravità di un buco nero, per finirci addosso.

Nella parte finale (éxodos) torna la musica come commento del coro. È una musica per archi, che accompagna il movimento – più convenzionale – a terminare la pièce. Invita a una compassione che vuole essere potenza tra potenze, una potenza non cieca, capace di accompagnare il movimento a franare dell’uomo, per andare oltre l’uomo. Si scappa dalla morte per tornarvi, una morte però che si scommette generativa, come accade per una supernova che esplodendo, lancia nello spazio materiale che andrà a formare nuove stelle.

Lasciando il teatro dopo il commovente finale, si fanno a ritroso le scale, si riattraversa il foyer, e poi Viale Togliatti. Cinecittà è a pochi passi, quei teatri di posa che diedero il nome al quartiere, e che fanno venire in mente felliniane fantasie. L’Accademia Popolare dell’antimafia non è una fantasia, piuttosto un luogo dove ogni faticoso e mortificante sogno di liberazione, può trovare da oggi casa. L’intensissimo lavoro di questa compagnia è qui a testimoniarcelo.

Lo spettacolo è andato in scena
AP Teatro

via Contardo Ferrini 83, Roma
giovedì 20 febbraio, ore 20.30

Supernova
drammaturgia e regia Mario De Masi
con Alessandro Gioia, Lia Gusein-Zadé, Fiorenzo Madonna, Luca Sangiovanni
aiuto regia Serena Lauro
foto Ivana Fabbricino
produzione I pesci in collaborazione con A. Artisti Associati Gorizia – ARTEFICI Residenze Creative FVG, Scuola Elementare del Teatro – Conservatorio Popolare per le Arti della Scena – L’Asilo