Dall’esplorazione del suo funzionamento alla constatazione dei suoi limiti, l’ultima giornata di Colpi di Scena – Sguardo nel Contemporaneo presenta il “tutto” e il “niente” di cui è capace il teatro.

Ad aprire le danze è La stradona. Si tratta di un monologo sulla via Emilia, «midollo che ha portato linfa alle nostre città, la vena che ha fatto scorrere la nostra cultura, l’utero in cui siamo stati concepiti». Il serrato confronto del protagonista con la propria stessa vita, che va dall’infanzia in spiaggia al tragico epilogo, anela a diventare «lo specchio di questa regione», viene intervallato da inserti audio-video ed è posto in parallelismo con «un dialogo serrato con una madre muta e archetipica». La speranza è che il «viaggio a episodi da Piacenza a Rimini, dal Po all’Adriatico» possa rappresentare «un viaggio individuale, fatto di avvenimenti comuni, ma proprio per questo universale, come il percorso di formazione di ciascuno di noi». Tuttavia, al netto delle lodevoli intenzioni, sono due gli elementi che non convincono. Il primo è proprio l’ambizione all’universalismo per uno spettacolo che «riflette  sui nostri modelli e sulla nostra storia. Dalla nascita del tricolore, la bandiera della madre-patria, a Reggio Emilia nel 1797, ai grandi autori che hanno contribuito a formare il nostro panorama simbolico», ma che in realtà descrive storie di amore e sofferenza che appartengono a un immaginario fin troppo privato per essere integralmente condiviso. La seconda è l’interpretazione patetica di Lorenzo Carpinelli, una scelta di “comodo” più disturbante che coinvolgente, mentre potenzialmente interessante è stato l’utilizzo scenico-evocativo del “dialogo” con lo specchio.

Anche Il Problema – «una storia d’amore, un inno alla vita. Racconta la nudità del dolore quando la morte si affaccia nella vita di una famiglia e come si possa sopravvivere a quel dolore, al presagio di un’assenza» – soffre di un’impostazione attoriale da soap-opera, ma il “problema” più serio non è tanto lo stucchevole pseudo-naturalismo dei personaggi, quanto il “come” Paola Fresa racconta “cosa”(«Padre, Madre e Figlia si trovano a dover affrontare un problema: la malattia incurabile che colpisce il Padre») – “come” che, tra l’altro, in alcuni momenti ha rasentato il ridicolo, per esempio nel caso delle scene delle borsettate o quella della doccia, quando i due anziani protagonisti si denudano e amoreggiano come teneri fringuelli. Il problema non è ovviamente la sessualità nella terza età, quanto il piegarla a un incoerente immaginario adolescenziale.

Il palco è «un interno domestico» scenografato come una stanza delimitata da colonne luminose. L’oggetto del “contendere” è quel «precipizio della memoria che è la sindrome di Alzheimer», ma il testo indugia su un realismo di maniera che deflagra nella volgare offesa quando il medico dell’Asl, dopo aver liquidato con cinismo la famiglia accorsa per rivendicare il diritto all’assistenza per il padre invalido al 100%, inveisce indiscriminatamente sul pubblico additato come (citiamo a memoria) “non migliore di lui”, “ipocrita”, “contento quando gira lo sguardo altrove dal dolore”, “augura la morte pur di non vedere la sofferenza”. L’omologazione a standard di quella che è evidentemente l’esperienza di vita dell’autrice, l’idea di poter giudicare senza conoscere minimamente chi ti sta di fronte e il j’accuse moralistico nei confronti dell’Altro tradiscono una miopia e una rigidità intellettualistica che rendono Il problema una rappresentazione stantia dal punto di vista scenico-formale e gretta da quella dei contenuti.

Portata in scena al posto di 20/20, Thinking Blind cambia completamente registro rispetto alla nuda parola. La performance ideata e diretta da Ivonne Capece è ispirata e dedicata alla vicenda di Derek Jarman, in particolare a Blue, la pellicola a cui il cineasta britannico affidò il proprio testamento estetico ed esistenziale. Sieropositivo all’Hiv negli anni in cui esserlo costituiva una condanna, oltre che uno stigma, Jarman compose e realizzò questo lungometraggio (1993) quando era ormai praticamente cieco e aveva “a disposizione” uno spettro visivo limitato alle tonalità del titolo, utilizzando per oltre un’ora un singolo fotogramma blu, le musiche di Simon Fisher-Turner e quattro voci fuori campo (tra cui quella di Tilda Swinton che aveva debuttato proprio con il Caravaggio di Jarman).

La costruzione performativa intreccia post-drammaticamente elementi visivi, sonorità e stralci testuali di carattere biografico (la triste vicenda sanitaria, le infinite medicine da assumere) e poetico (la marginalità esistenziale, l’arte come forma di r/esistenza), senza che una partitura prenda il sopravvento sull’altra. Il palco – dove Ivonne Capece e Giulio Santolini sono due figure metaforiche e il loro abitare la scena assume valenza iconica e secondariamente figurativa – è una sorta di ambiente ancestrale nel quale la visione e l’ascolto procedono per quadri e “provocano” l’urto della comprensione.

Il primo quadro è quello di una donna per metà nuda, cinta da una lunga gonna blu sui fianchi e che rimane immobile fintanto che “annuncia”, con tono fermo e moderatamente enfatico, una visione su cosa accadrebbe se dieci bottiglie verdi dovessero cadere una a una. La cronologia da dieci a uno è accompagnata da immagini che introducono la dimensione panica dell’allestimento, vale a dire la consapevolezza “lirica” dello stretto legame che intercorre tra il macro e il microcosmo, tra la natura e l’essere umano, tra l’esterno e l’interno. Come sottotesto visivo iniziano a fare comparsa delle arance, il cui rotolare restituisce la fecondità, l’amore e anche la purezza paradisiaca di una fugace condizione primordiale

“Caduta” l’ultima bottiglia verde, Capece, che durante la performance sarà visibile unicamente di spalle, rompe il proprio status “marmoreo” e inizia movimenti quasi impercettibili. Compare una piramide di arance dalla lunga gonna e soprattutto si annuncia la venuta al mondo dell’essere umano, Giulio Santolini. L’uscita dal ventre non è indolore, come se la vita umana non fosse poi così determinata a manifestarsi e a prendersi le responsabilità che l’attendono al varco, ma infine, dopo un estenuante parto, essa compare plasticamente e riceve in affido non una mela, ma un ananas, simbolo di esotismo, abbondanza e accoglienza.

La generazione, dunque, “contamina” la scena che perde innocenza; l’essere umano fagocita selvaggiamente una arancia, il suo corpo si macchia di blu, mentre i colori restituiti nel “racconto” della donna rappresentano ciò che l’autore ormai non poteva più vedere e dunque il rischio della consapevolezza della perdita quando ormai è troppo tardi. Un ultimo atto di resistenza, estremo e struggente, viene messo in atto dalla donna: nel crescendo fisico e verbale della sua disperazione, che è la disperazione della stessa Terra, cede all’uomo una delle sue due gonne. Gli consente così di coprirsi di blu, di destarsi dall’incosciente torpore con cui sta devastando il proprio ambiente e la “prima natura” e quindi di provare a ri-fondersi panicamente con e in essa. Nonostante la stratificazione e la “complessità” performativa, Thinking Blind è comunque uno spaccato lirico e, a suo modo, limpido della “attenzione” a cui siamo richiamati in quanto esseri umani prima che ogni sforzo diventi inutile.

Il defunto odiava i pettegolezzi, ultimo lavoro dei Menoventi, è invece la “ricostruzione” degli «ultimi giorni di vita di Majakovskji» tratta dall’omonimo romanzo di Serena Vitale ed è il momento conclusivo di un lungo percorso che, «dopo l’attuazione di formati che intrecciano diverse discipline (teatro-letteratura-radio-divulgazione scientifica) – dallo spettacolo teatrale alla mise en espace, dal reading all’incontro interdisciplinare, fino al radiodramma ospitato da Il Teatro di Rai Radio3 – […] approda allo spettacolo finale».

La caratteristica cifra stilistica della compagnia è evidentissima nel processo di smontaggio e montaggio del meccanismo teatrale attraverso il quale l’allestimento si piega e dispiega sul palco (e anche oltre di esso, considerando i rumori del pubblico sovietico “rievocato” con risate, rimbrotti, buu) e dà vita a uno sconcertante gioco di “concomitanza” nei termini della libera associazione che si instaura tra quanto di conosciuto e quanto di sconosciuto è ormai storicamente emerso della vicenda – anche in seguito allo studio da parte di Vitale dei documenti d’epoca disponibili con l’apertura degli archivi del 1991 (verbali e pettegolezzi compresi).

La teatralizzazione di dinamiche – che i Menoventi e Vitali immaginano – epocali («raccontare la fine di una generazione straordinaria») e personali prende dunque forma nel “chiasma” di ciò che è visibile e di ciò che è invisibile nella e per la conoscenza storica, nelle relazioni spezzate tra Majakovskij, Lili, Jansin, Nora e gli altri (eccellenti tutte le interpretazioni) e nella complessità delle forze rivoluzionarie entro le quali vivevano (quella bolscevica, di poesie “tradite” e di pubblici “strumentalizzati”, ma anche quella teatrale del Teatro dell’Arte di Stanislavskij e della Biomeccanica di Mejerchol’d incarnata nei registri  recitativi).

Il rapporto tra Majakovskij e la sua epoca fu e continua a essere controverso (si spiega forse così il suo biglietto di commiato dedicato «A tutti»?) ed è proprio per restituirne l’essenziale reciprocità e complementarietà che la simultaneità delle quattro linee narrative concepite da Battiston e Farina (L’interrogatorio, La camera, Il teatro, Il bagno) si sviluppa in un rincorrersi contemporaneamente diacronico e sincronico. Se i dettagli dei vari loop cambiano lievemente, la sostanza ne risulta comunque sconvolta: la Donna dallo splendido costume fosforescente – che parla in versi ed è stata inviata dal poeta direttamente dal passato – è un’appassionata e spettrale “maestra di sala” che, in alcuni momenti, si intestardisce sui particolari delle prospettive dei diversi testimoni, mettendone in pausa i vari interrogatori o riavvolgendo direttamente il nastro del tempo, mentre in altri parla alla platea (anche) per legittimare la propria paradossale presenza.

La passività di quanto immutabile nel passato è ormai accaduto diviene “motore” della “attività” scenica del presente e Il defunto odiava i pettegolezzi giunge a rap-presentare la specularità di una “unica” realtà che, andando dal palco alla platea in virtù di una inaudita padronanza dei sincronismi scenici e dei ritmi performativi, provoca l’epifania di un contenuto di verità che, a seconda dello sguardo di ogni astante, si fa paradossalmente privato rispetto alle domande: chi e perché ha ucciso il poeta?

Nonostante si intravedano margini operativi nella gestione dei “vuoti” performativi, sia palese la maggiore “attenzione” prestata alla partitura narrativa (almeno in relazione alla ricerca estetico-artistica di Perdere la faccia o La vita agra del dottor F.) e la dimensione politica del poeta rimanga un po’ ai margini, la maturità raggiunta con Il defunto odiava i pettegolezzi in termini di complessità dell’ideazione e di limpidezza della realizzazione lascia chiaramente intravedere la statura di una compagnia nata nella piccola Faenza e ormai meritevole di riconoscimento a livello planetario.

Rispetto a cotanta audacia, l’edizione zero di Sguardo nel Contemporaneo affida la propria conclusione a uno spettacolo esattamente agli antipodi, Anteprima Semmelweis, una «creazione scenica» liberamente tratta dal tesi che Céline, nel 1924, «dedicò alla vita di uno degli eroi scientifici dell’Ottocento: Ignac Fulop Semmelweis». In uno spazio scenico presentato come «essenziale», Marco Foschi drammatizza vocalmente la lettura della vicenda, prima rimanendo in piedi, poi sedendosi in una sorta di “cubo” radiofonico e infine stendendosi su uno pseudo-letto di dissezione anatomica. Peccato che la scarnificazione del processo drammaturgico, la nullificazione attoriale e l’affidamento della «creazione scenica» esclusivamente allo strumento vocale abbiano restituito la percezione più di un audiolibro da ascoltare, che quella di un evento teatrale da esperire.

Gli spettacoli sono andati in scena durante Colpi di Scena – Sguardo nel Contemporaneo
location varie
02/10/2021

Teatro San Luigi
La stradona
Autobiografia di una regione allo specchio
di Iacopo Gardelli
con Lorenzo Carpinelli
video di Vladimiro De Felice
una produzione Studio Doiz
in collaborazione con Home Movies – Sguardi in Camera

Teatro Il Piccolo
Il Problema
di Paola Fresa
testo menzione speciale Premio Platea
con Nunzia Antonino, Michele Cipriani, Franco Ferrante, Paola Fresa
collaborazione alla creazione collettiva Christian Di Domenico
scene e costumi Federica Parolini
luci Paolo Casati
tecnico luci Maurizio Coroni
costruzione scene Luigi Di Giorno, Davide Maltinti
video e foto di scena Andrea Bastogi
illustrazione Francesco Chiacchio
con il sostegno di U.P.I.P.A. (Unione Provinciale Istituzioni Per l’Assistenza –Trento) TRAC centro di residenza pugliese – Teatro comunale di Novoli
produzione Fondazione Sipario Toscana

Teatro Testori
Thinking Blind
progetto e regia Ivonne Capece
performer Ivonne Capece, Giulio Santolini
collaborazione artistica Walter Valeri
concept visivo e foto Micol Vighi
produzione (S)Blocco5
Performance Finalista Biennale College Teatro 2021 Sezione performance internazionale Under40

Teatro Diego Fabbri
Il defunto odiava i pettegolezzi
tratto dall’omonimo romanzo di Serena Vitale (edizioni Adelphi)
ideazione Consuelo Battiston e Gianni Farina
drammaturgia, regia, suono, luce Gianni Farina
con Consuelo Battiston, Tamara Balducci, Leonardo Bianconi, Federica Garavaglia e Mauro Milone
costumi Elisa Alberghi e Consuelo Battiston
tecnica Paolo Baldini
costruzioni sceniche Giovanni Delvecchio
organizzazione Marco Molduzzi, Maria Donnoli
comunicazione e promozione Maria Donnoli
una coproduzione E Production / Menoventi, OperaEstate Festival Veneto, Ravenna Festival

EXATR
Anteprima Semmelweis
Creazione scenica liberamente ispirata a Il dottor Semmelweis di L.F. Céline
con Marco Foschi
note di regia Claudio Angelini e Marco Foschi
scene Claudio Angelini
e con la partecipazione di Daniele Romualdi e Emanuele Tontini
traduzione Massimiliano Morini
elaborazione sul testo Claudio Angelini e Marco Foschi
suoni Cristiano De Fabriitis
supervisione musicale Davide Fabbri
direzione tecnica e luci Luca Giovagnoli
fonica Giacomo Calli
costumi Liana Gervasi
il disegno è realizzato da Barbara Longiardi e Giovanni Pizzigati
una produzione Città di Ebla
in coproduzione con Teatro Akropolis