Ritratti d’autore

Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto? Fabio Condemi (Ferrara, 1988) si è formato come regista teatrale presso l’Accademia Silvio d’Amico di Roma, diplomandosi nel 2015 con un saggio di regia tratto da Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini. Nello stesso 2015 ha realizzato per Radio3 un adattamento radiofonico del Manifesto per un nuovo teatro, testi pubblicato da Pasolini nel 1968. Dopo aver esplorato anche le opere di James Joyce con il dramma Esuli e di Robert Walser con un adattamento del romanzo Jakob Von Gunten, nel 2019 torna ad analizzare l’immaginario pasoliniano con Questo è il tempo in cui attendo la grazia, originale collage di sceneggiature e brani poetici dell’intellettuale e regista «corsaro», prodotto dal Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale e dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale in collaborazione con il Teatro Comunale di Pordenone e il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa; atteso per il mese di novembre 2020 al Teatro India di Roma, Questo è il tempo in cui attendo la grazia è stato rimandato a causa delle restrizioni anti-Covid. Il suo lavoro più recente, presentato anche alla Biennale Teatro di quest’anno, è stato un adattamento de La filosofia nel boudoir del marchese De Sade prodotto dal Teatro di Roma e dal TPE di Torino.

Lei è nato tredici anni dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, ma si è già approcciato molte volte ai suoi testi. Qual è stato il suo primo contatto e come ha, in seguito, approfondito la poetica e il pensiero di Pasolini?
Fabio Condemi: «Ho scoperto l’opera di Pasolini a 14 o 15 anni. Trovai le poesie de Le ceneri di Gramsci e gli Scritti corsari in biblioteca. Portavo i suoi libri e i suoi versi come un talismano nelle tasche del mio cappotto quando camminavo nelle vie di Pesaro d’inverno con le canzoni dei CCCP o di Nick Drake nelle orecchie a volume altissimo. Sentivo di aver trovato qualcosa di importante nei suoi versi e nella sua figura. I primi ricordi di come ho scoperto Pasolini sono legati a quel tipo di vitalità e di rabbia che si provano a quindici anni e odorano di strade vicino al mare e di cattive sigarette. Poi viene il resto: la scoperta della sua opera completa e la trasposizione teatrale di alcuni dei suoi testi».

Bestia da stile era stato iniziato nel 1965, l’anno in cui si concentra gran parte della produzione teatrale pasoliniana, e più volte rielaborato fino al ’74, per poi andare in scena per la prima volta solo nel 1985 per la regia di Mohamed Cherif. È considerato uno dei testi più complessi e stratificati di Pasolini. Come mai lo ha scelto per il suo saggio di regia?
FC: «Nel 2015 Giorgio Barberio Corsetti tenne un corso di regia in Accademia e ci chiese di lavorare sui testi di Pasolini. Per me fu un incontro importantissimo, Giorgio sapeva ascoltare i nostri progetti e ci sapeva guidare con discrezione e attenzione. Lessi per la prima volta Bestia da stile durante il suo corso di regia  (un testo teatrale che ha per protagonista il poeta boemo Jan, alter ego di Pasolini) e mi colpì subito proprio per il rapporto tra complessità e immediatezza che emerge dalle pagine. Mi piace confrontarmi con testi che offrono una molteplicità di letture possibili e di combinazioni come nei film di Peter Greenaway o nei libri di Georges Perec, che sto studiando in questo periodo. Le parole di Jan, per quanto dense e piene di riferimenti letterari, hanno una forza e una freschezza struggente e Gabriele Portoghese, allievo del corso di recitazione della Silvio D’Amico e mio frequente collaboratore da allora in poi, le pronunciava con una vibrazione unica e commovente. Era una vera emozione, qualcosa che ha poco a che vedere con altri testi teatrali e molto con la poesia e la sua carica eversiva e luminosa. Nel testo il termine “stile” ha una forte connessione con la sua etimologia: qualcosa di acuminato e incisivo che ferisce e fa sanguinare».

Per portare in scena Bestia da stile ha compiuto degli interventi di riduzione o di modifica del testo? Come ha impostato la scena e quali indicazioni di regia ha dato agli attori?
FC: «Intanto è importante dire che la messa in scena è nata in un ambito di studio all’interno dell’Accademia. Un momento protetto dove è consentito il rischio e l’errore. Questo è stato fondamentale anche per la drammaturgia. Ho reinserito una scena tagliata da Pasolini, ma ho tagliato tante parti, anche molto interessanti, per concentrarmi meglio su altre. In scena c’erano dei pannelli trasparenti su cui era possibile scrivere e che creavano i diversi spazi – ogni capitolo del testo si svolge in un luogo e un tempo diverso e segue il corso della vita del poeta dagli anni ‘20 al 1968 – e un grande ramo vero che avevamo recuperato con lo scenografo vicino al fiume. Bestia da Stile comincia con il giovane poeta che si masturba in riva a un fiume boemo non visto dai suoi coetanei che stanno festeggiando un rito agricolo. Mi interessava l’accostamento nello stesso spazio di elementi stilizzati, come i pannelli, e di elementi concreti, come l’acqua o il tronco d’albero. Gli attori sono stati bravissimi nel sostenerlo. Per un interprete le battute di Pasolini spesso possono essere difficili da pronunciare, ma quando entri nel suo linguaggio e nelle immagini poetiche dei suoi testi provi una gioia incomparabile. Forse ora lo metterei in scena diversamente ma con immutata passione».

Nello stesso anno di Bestia da stile, lei ha curato un adattamento radiofonico del Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini insieme a Gabriele Portoghese e alle allieve della Silvio D’Amico Gloria Carovana e Zoe Zolferino. Come è stato avvicinato a questo progetto e come lo ha realizzato?
FC: «Nel 2015, in occasione del quarantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, ci furono tante iniziative legate alle sue opere e Radio Tre ci chiese una riduzione del Manifesto. Fu una bella occasione di studio e di confronto con la visione teatrale di Pasolini. Le nostre letture si alternavano con le colonne sonore di alcuni film come Uccellacci e uccellini e Salò».

Figlio dei suoi anni, con il Manifesto per un nuovo teatro Pasolini criticava ferocemente il teatro borghese, considerando rivoluzionario ma superato lo stesso Brecht, e invocava la nascita di un «teatro di parola» frontale e democratico. Crede che le tesi di Pasolini qui esposte siano tuttora valide? Il contatto con questo manifesto pasoliniano ha influenzato il suo modo di concepire la regia?
FC: «Penso sia molto importante leggere il Manifesto di Pasolini. Studiandolo si comprendono sia la visione che Pasolini aveva del teatro del suo tempo sia le sue intenzioni come drammaturgo. Penso anche, e in questo sono d’accordo con quello che scriveva Luca Ronconi, che la forza e la ricchezza di immagini della scrittura teatrale di Pasolini superino di gran lunga le intenzioni programmatiche del manifesto. Per registi e attori, i testi di Pasolini per il teatro sono una miniera continua di intuizioni e di immagini e nel rappresentarli non bisognerebbe attaccarsi troppo al Manifesto come se fosse una sorta di ricetta per mettere in scena le sue drammaturgie. Questa, naturalmente, è solo la mia opinione».

Questo è il tempo in cui attendo la grazia è il suo terzo lavoro ispirato da Pasolini; si tratta stavolta di una drammaturgia originale che prende le mosse da alcune poesie e alcune sceneggiature di Pasolini. Come si è svolto il processo di selezione dei testi e quali alla fine sono rimasti nel «montaggio definitivo» dello spettacolo? Come si è svolta la collaborazione con Gabriele Portoghese, protagonista e co-autore della drammaturgia dello spettacolo?
FC: «Si tratta di un montaggio di testi. Uso non a caso questa parola perché è proprio nel montare insieme testi di varia natura – sceneggiature, appunti dei film, testi poetici, saggi – che si formano accostamenti inediti e si crea spazio per l’immaginazione degli spettatori. Il tema dello sguardo è centrale in questo lavoro. Si comincia col bambino che vede la luce, la natura, sua mamma per la prima volta (Edipo re) e si prosegue con lo sguardo antico e religioso sul mondo del Centauro (Medea) e si arriva fino allo sguardo su un’Italia imbruttita dal nuovo fascismo consumista (La forma della città, breve documentario del 1974) passando per la “disperata vitalità” presente ne Il fiore delle Mille e una notte e per la scena della Ricotta nel quale il regista viene intervistato e afferma “io sono una forza del passato”. Espressioni come “vede”, “come visto da”, “vediamo”, “guarda”, “attraverso gli occhi di…” compaiono molto spesso in tutti i testi scelti e creano questo filo rosso sul tema del vedere che è molto importante in un periodo nel quale la capacità di guardare le cose si è atrofizzata. Per questo motivo il materiale letterario che abbiamo scelto è tratto dalle sceneggiature: sfogliando una sceneggiatura di Pasolini entriamo immediatamente nella sua officina poetica e in quelle folgorazioni figurative per i pittori medievali e manieristi studiati sotto la guida di Roberto Longhi. Gabriele, che oltre a essere interprete del lavoro ha curato con me la drammaturgia e il montaggio dei testi, riesce, in scena, a evocare tutte le immagini, i volti, gli sguardi e i sogni presenti nelle bellissime sceneggiature che Pasolini scriveva quando preparava i suoi film. Il titolo dello spettacolo è tratto da un verso della poesia di Pasolini, Le nuvole si sprofondano lucide inserita nella raccolta Dal diario (1945-1947). Le poesie giovanili di PPP sono stupende anche se poco conosciute rispetto a quelle della maturità e questa in modo particolare arricchisce la drammaturgia introducendo il tema della grazia, parola preziosa e importante nel nostro lavoro. Fabio Cherstich, che a partire dall’adattamento dello Jakob Von Gunten di Walser è stato un collaboratore fisso in tutti i miei spettacoli, ha curato la drammaturgia delle immagini, mentre Igor Renzetti si è occupato dei filmati. Sullo schermo compaiono delle scritte e alcune immagini che io e Igor abbiamo girato durante i sopralluoghi in Friuli e in altri luoghi».

I materiali di presentazione dello spettacolo fanno riferimento a un sistema di proiezioni che, attraverso immagini più evocative che descrittive, conducono il pubblico all’interno dell’immaginario interiore di Pasolini. Può dirci di più sulla messa in scena e sulla regia di Questo è il tempo in cui attendo la grazia?
FC: «A me interessa molto come il nostro cervello riesca a produrre immagini. Nelle Lezioni Americane, Italo Calvino si sofferma sull’argomento quando parla della visibilità. Direi che questa zona vibrante che esiste tra la parola scritta e l’immaginazione di chi la legge è per me importantissima. In quella zona trovo spazio per confrontarmi con il mistero della rappresentazione. Disegnare, studiare e scrivere aiutano molto in questo processo di materializzazione di qualcosa di totalmente immateriale e anche nel processo opposto, ancora più importante. Questo è il tempo in cui attendo la grazia comincia con una domanda: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”. È la frase che dice l’allievo di Giotto interpretato dallo stesso Pasolini alla fine del film Il Decameron. Questa tensione tra realizzare e sognare attraversa tutto lo spettacolo. Protagonista è lo sguardo di Pasolini. Il saper guardare viene prima del prodotto filmico: ancora non c’è cinepresa, è solo nella mente, nelle parole e negli occhi del poeta. Volevamo restituire agli spettatori la ricchezza di questo cinema mentale e della capacità di guardare di Pasolini. In scena c’è una sorta di set realistico con della terra e delle piante molto semplici. Dentro il set c’è un microfono. In alto c’è uno schermo con degli appunti visivi e i titoli delle sceneggiature dei film utilizzate, come Edipo Re, La Ricotta, Il fiore delle Mille e una notte e un copione mai girato su san Paolo. C’è anche una citazione tratta da una performance di Fabio Mauri, che si chiamava Intellettuale. Questi sono gli elementi che forniamo agli spettatori attraverso i quali possono ricomporre questi materiali dentro la loro testa. Per i video e le riprese abbiamo pensato molto a registi come Gioli, Mekas, Pauwels e Franco Piavoli».

Recentemente è andato in scena al Teatro India un suo adattamento de La filosofia nel boudoir di Sade: ha tenuto conto della lezione di Pasolini in Salò nel mettere in scena il Boudoir?
FC: «Credo che a questa domanda saprò rispondere con più lucidità in futuro. Sicuramente la visione del film di Pasolini, i suoi scritti e interviste su Sade e alcuni riferimenti letterari presenti in Salò sono stati fondamentali per la mia lettura della Filosofia nel boudoir. Un altro strumento per organizzare la narrazione che mi è stato utile è la divisione in capitoli della messa in scena, presente anche nel film. Questa strategia drammaturgica è utile per mettere in moto una serie di associazioni e diminuire l’immedesimazione dello spettatore. Pasolini usava dei gironi danteschi per rappresentare una discesa nell’inferno della violenza del potere, io ho diviso il lavoro in cinque lezioni che fanno da contrappunto alla rappresentazione sadiana».

In che modo può essere ancora recepita l’eredità pasoliniana? Ci sono alcuni punti del Pasolini saggista o del Pasolini teorico che dal suo punto di vista furono erronei o comunque superati? A suo parere, è possibile ricordare Pasolini senza carnevalizzarlo?
FC: «Per risponderti vorrei citare un pensatore che seguo e ammiro molto: Georges Didi-Huberman. Nel suo saggio Come le lucciole Didi-Huberman scrive: “Tutta l’opera letteraria, cinematografica e persino politica di Pasolini sembra attraversata da momenti di eccezione in cui gli esseri umani diventano lucciole – esseri luminescenti, danzanti, erratici, inafferrabili e, come tali resistenti – sotto il nostro sguardo meravigliato”. Poi, riferendosi agli scritti di Giorgio Agamben ma anche a quelli di Pasolini afferma: “Che cosa chiedere di meglio a un pensatore che inquietare il proprio tempo, proprio per il fatto che egli stesso ha un rapporto inquieto con la propria storia e con il proprio presente?”»