Faust: un esperimento (troppo) moderno?

Un viaggio «transdisciplinare», così viene definito dal regista Andrea Liberovici questa sua opera figlia: Faust’s Box- A transdisciplinary journey che debutta in Italia, dopo la prima parigina, al teatro Stabile di Genova.

Silenzio. Buio. L’unico rumore che si sente è quello dei passi del solo vero protagonista che gli spettatori ancora non sanno chi sia. Solo nel momento in cui giunge al centro del palcoscenico, con le luci puntate, davanti a uno specchio, quella figura si presenta: è Faust. Anzi è uno dei tanti Faust della storia del mondo. E allo specchio non è Faust che si vede, ma il suo lato oscuro, Mefisto. Due facce della stessa medaglia appunto, ma le cui parole sgorgano dalla medesima fonte, la voce acuta, fredda e precisa della carismatica protagonista indiscussa Helga Davis.
Come ogni Faust, anche questo desidera solo una cosa: sapere e conoscere. Sapere le sorti del mondo e conoscere il suo posto nel medesimo. Faust ripercorre le tappe principali della sua vita intraprendendo dunque un «viaggio interdisciplinare» – come disse il regista Andrea Liberovici nell’intervista rilasciataci prima del debutto.
Il viaggio comincia e Faust ripensa al suo passato ma, adulto, sente quella voce interiore che tutti hanno ma che spesso si preferisce azzittire, la voce del suo Mefisto. In un’alternanza di tredici momenti, il quadro della vita di Faust è presto dipinto per mezzo di tutte le sfumature, da quelle calde a quelle più gelide.
Ma è un viaggio inusuale, perché gli unici accompagnatori sono la musica, o meglio il suono (rumore ci pare eccessivo), e il colore. Sul palcoscenico l’Ars Nova Esemble Instrumental composta da clarinetto, violino, viola, violoncello, contrabbasso e percussioni. A che scopo? Questi attrezzi sono l’accompagnamento di Faust, un mezzo attraverso cui il protagonista può fare a meno (secondo lui) delle parole, poiché quei suoni sono sufficienti a esprimere i sentimenti: rabbia, paura, passione, dolore. Ma in realtà non bastano nemmeno, Faust/Mefisto canta, ma quegli strumenti non rappresentano l’armonico accompagnamento alla sua voce, ma un grido stridulo che risponde alle parole del protagonista. Come quando su un treno un lettore siede assorto, immerso nel suo romanzo e viene inopportunamente interrotto da un altro passeggiero che comincia a chiedere che ore siano, quanto duri il viaggio e a parlare del tempo, così questi suoni, nonostante l’alta capacità interpretativa del Maestro direttore Philippe Nahon, interrompono il fiume di pensieri di Faust. Una funzione quasi Joyciana quella del suono, per ricordare infatti a Faust che ogni bel momento della vita in realtà non veniva mai abbandonato dal lato più angosciante e triste.
Ma anche le luci sono necessarie: con rapidità, le parole diventano le immagini di Jérôme Deschamps che si stagliano sullo sfondo e che esprimono il sentire di Faust attraverso un coordinato equilibrio tra colore e suono.
Cosa abbiamo visto? Il problema è proprio questo. Non è tanto il tema che ci colpisce (un percorso dalle origini della vita al presente per ripercorrere quelle tappe che sono significative per la formazione dell’essere umano) ma come esso viene trattato. Il regista dice che l’obiettivo di «parlare di temi complessi nel modo più semplice possibile» si può raggiungere anche considerando la «mutazione antropologica nel nostro percepire e comunicare» perché «siamo sempre più animali audiovisivi: riusciamo a vedere e ad ascoltare contemporaneamente».
Se l’idea di Liberovici era quella di creare un nuovo linguaggio che fosse immediato, scenico, semplice e veloce (l’opera dura infatti poco più di un’ora), possiamo dire che in parte questo è stato realizzato. È certamente un Faust in un mondo moderno, pop, rapido, violento che si esprime con l’utilizzo veloce di quei mezzi, quali suono e immagine, che sono percepiti in modo immediato dall’uomo.
Troppi fili arrotolati e annodati da troppa complessità che impedisce allo spettatore di sbrogliare la matassa alla fine dell’arazzo. Lo spettatore osserva la vita di quest’uomo, partecipa con lui ai suoi dubbi e rimane senza risposte.
Uno spettacolo forse più adatto a un teatro europeo, specialmente francese, in cui la sperimentazione è già passata e sostituita da nuove forme d’arte. Uno spettacolo che, secondo noi, non trova in Italia e a Genova un pubblico che riesca a essere soddisfatto alla fine.
In una società così veloce e rapida, che non è in grado di attendere e di ascoltare, che non si annoia perché non ha il tempo di farlo, davvero in questa società serve un teatro remissivo allo schizofrenico susseguirsi di questi tempi contemporanei?
Deve dunque il nostro teatro, quello italiano, confrontarsi con il nuovo repertorio europeo contemporaneo e porre degli interrogativi in modo nuovo? E se lo fa, il nostro pubblico è pronto?
Le risposte le può dare solo lo stesso pubblico.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Duse

via Nicolò Bacigalupo 6, Genova
dal 30 novembre fino al 4 dicembre
ore 20.30, giovedì ore 19.30, domenica ore 19, lunedì riposo

Faust’s Box
di Andrea Liberovici
regia di Andrea Liberovici
con
Helga Davis – Faust/Mephisto
Philippe Nahon – direttore d’orchestra
Robert Wilson – narratore nell’ombra
Ennio Ranaboldo – ghost writer
Ars Nova Ensemble Instrumental:
Éric Lamberger – clarinetto
Isabelle Cornélis e Elisa Humanes – percussioni
Catherine Jacquet – violino
Alain Tresallet – viola
Isabelle Veyrier – violoncello
Tanguy Menez – contrabbasso
musiche e video – Andrea Liberovici
luci – Jérôme Deschamps
produzione Teatro Stabile di Genova e Ars Nova ensemble Instrumental, Teatro del Suono, TAP Théâtre Auditorium de Poitiers con il sostegno di La Spedidam