Genio e sregolatezza

Una serata assolutamente unica nel suo genere offre al pubblico di MiTo Settembre Musica l’occasione di compiere un viaggio tra le epoche e gli stili, condensato in poco più di due ore. Al pianoforte Fazil Say, mattatore istrionico.

Che un pianista affronti ben quattro concerti solistici in una sola serata è un evento più unico che raro; che poi i quattro concerti in questione non facciano parte di una sorta di “integrale”, ma compiano un arco trasversale nella storia della musica, allora si assiste a un vero e proprio evento.

Appena si legge il programma – nell’ordine: Concerto in sol maggiore di Ravel, Concerto in do maggiore KV 467 di Mozart, Concerto n. 2 Silk Road dello stesso Say e Rhapsody in Blue di Gershwin – la curiosità cresce a dismisura e tante domande cominciano ad affiorare una dietro l’altra, vorticosamente: cosa lega tra loro questi brani? Qual è il filo conduttore che tiene insieme un programma del genere? E soprattutto: il pianista dimostrerà di essere così versatile da riuscire a rendere giustizia a tanti stili e tante scritture diverse?

Il fatto singolare è che a fine serata si rimane senza delle risposte definitive, ma solo con tante sensazioni che portano a una possibile soluzione solo intuitivamente – niente di definitivo e categorico.

Ma andiamo con ordine. Fazil Say decide di iniziare con Ravel: un brano difficile, caposaldo del repertorio pianistico che pochi si sentono di affrontare nel corso della carriera. Composto nel 1931 è lo specchio della Parigi del tempo, con i cafè-chantant e la forte, irresistibile impronta del Jazz che in quegli anni contagia l’Europa e Ravel in particolare (interessante infatti fu il suo incontro con Gershwin). Tuttavia non mancano le parti più intimiste – come l’inizio dell’Adagio assai – dove il solista può indagare le numerose timbriche dello strumento. Il suono di Say è quasi ovattato e nella lunga introduzione in cui è solo dimostra di sapersi godere il momento. In generale affronta tutto con entusiasmo, è molto attento all’orchestra – che per l’occasione è la Prague Philarmonia – e sembra quasi se ne senta parte integrante. A sconvolgere rimane l’inesauribile pulsazione ritmica che anima Say per tutto il tempo, travolgendolo tanto da non riuscire a tener ferme le gambe che, per tutta la serata, fanno una sorta di controbilanciamento a braccia e mani, quasi a eseguire uno strano balletto – ancora più strano, visto che ci si trova in un teatro per un concerto.
Ulteriore fonte di curiosità l’esecuzione di Mozart che, questa volta, divide il pubblico tra calorosissimi applausi e qualche dimostrazione di dissenso. La ragione è presto detta: dopo un’introduzione a dir poco magistrale della Filarmonica di Praga – azzeccata in tutte le sue componenti – Say risulta un po’ fuori luogo: il suono rimane ancora troppo legato a Ravel e qualche anomalia nel fraseggio che può risultare criptico insieme a dei pedali un po’ troppo lunghi – fanno sussultare i più tradizionalisti. Al contrario, lo spirito mozartiano è presente al 100%, il brio e la freschezza sono una boccata d’ossigeno rispetto ad altre esecuzioni proprie di questi tempi – magari filologicamente impeccabili, ma decisamente stucchevoli. E a grande sorpresa, tutta l’esposizione dell’Andante è condotta con un suono bello e delicato, eppure pieno e consistente.

Si rimane così avvolti in un’atmosfera sospesa, mentre la performance prosegue con Silk Road – brano firmato dallo stesso Say, che è anche compositore di fama, con alle spalle pezzi scritti per importanti istituzioni, quali il Festival di Salisburgo. Suddiviso in quattro quadri senza soluzione di continuità – White dove black clouds (Tibet), Hindu Dances (India), Massacre (Mesopotamia) ed Earth Ballad (Anatolia) – Silk Road si presenta come un’appassionante ricerca di nuove sonorità, dove l’uso del pianoforte “preparato” (ossia con dei piccoli oggetti posizionati tra le corde che permettono di riprodurre suoni metallici) e il pizzico diretto delle corde donano all’insieme un che di esotico. Il gong infine rimanda all’Estremo Oriente e dà il giusto sapore etnico, nell’insieme di ostinati ritmici, ribattuti e ripetizioni di cellule tematiche.

Il pubblico apprezza calorosamente, in attesa di Rhapsody in Blue: brano molto noto, amato anche dai profani, massimo esempio della cultura jazz che sconfina nella musica classica. Qui finalmente Say sembra liberarsi totalmente da qualsiasi costrizione e riesce a dare il meglio di sé. Tira fuori un suono potente e caldo ed entra a pieno nel personaggio – fino a ritrovarsi totalmente a proprio agio da fare interi passaggi senza pedale, riuscendo però a evitare che la pienezza della musica ne risenta. Sembra di assistere a una grande festa e l’orchestra non è da meno: a parte un inizio non proprio magistrale del clarinetto – peraltro inizio temutissimo, nonché estremamente difficile – tromboni e violoncelli si dimostrano impeccabili. L’insieme è ottimo e il direttore Jan Lathman-Koenig dà bella mostra di tutte le sue qualità. La Prague Philarmonia è precisa e versatile.

Dopo numerose chiamate e un tifo quasi da stadio, Say offre ben due bis: il primo è un’improvvisazione meravigliosa sulla celeberrima Summertime di Gershwin – in cui lascia spazio a tutto lo swing che ha in corpo: travolgente, acrobatico, quasi meglio senza orchestra che con. Il secondo è una sua composizione dove sembra trasformare il pianoforte in uno strumento a fiato particolarissimo, sempre lavorando sulle corde.

Nel complesso Fazil Say è un personaggio insieme fantasioso ed enigmatico. Che sia il nuovo Glenn Gould? Ai posteri l’ardua sentenza.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro degli Arcimboldi
viale Dell’Innovazione, 20 – Milano
venerdì 9 settembre, ore 21

Quattro concerti per pianoforte e orchestra
Maurice Ravel: Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto per pianoforte e orchestra n. 21 in do maggiore KV 467
Fazil Say: Concerto per pianoforte e orchestra da camera n. 2 Silk Road
George Gershwin: Rhapsody in Blue
direttore Jan Latham-Koenig
pianoforte Fazil Say
Prague Philarmonia