All’Elfo Puccini uno tra gli ultimi lavori firmati da William Shakespeare, il Racconto d’inverno. La penna del Bardo si sta prosciugando e lui narra alla corte una favola imbevuta nell’amaro.

All’Elfo Puccini uno tra gli ultimi lavori firmati da William Shakespeare, il Racconto d’inverno. La penna del Bardo si sta prosciugando e lui narra alla corte una favola imbevuta nell’amaro.

Nel 1603 Giacomo I° Stuart sale sul trono. Elisabetta Tudor è morta e il figlio di Maria, Queen of Scotland, decapitata per la ragion di Stato dalla stessa Regina Vergine, prende il potere diventando il primo re del Regno Unito. Elisabetta lascia un impero agli Stuart e Giacomo si abbandona ai fasti imperiali. A corte diventano di moda i masque. Danza e musica prendono il sopravvento: non è più tempo di tragedia. E se il tempo della tragedia lascia il passo a quello della festa, anche il Bardo si deve adeguare: la penna di William Shakespeare si secca vergando gli ultimi quattro “romances”: i drammi romanzeschi che strizzano l’occhio alle pastorali arcadiche, sotto il segno dell’avventura e dell’happy ending.

A questa tetralogia appartiene il Racconto d’inverno: incentrato sul tema della gelosia, o almeno la prima parte – se rispettiamo la suddivisione moderna in soli due atti – e sui temi dell’amore giovanile e della riconciliazione, la seconda. Proprio questa profonda discrasia di tono, unitamente ai grandi salti temporali e spaziali e alle iperbole linguistiche (dall’alto linguaggio di corte all’autentica scurrilità) rendono questa pièce un esperimento affascinante – come espressione della padronanza di Shalkespeare dell’arte di fare teatro – e un’opera non propriamente riuscita perché troppo sbilanciata.

All’Elfo Puccini, Elio De Capitani e Ferdinando Bruni – giustamente – scelgono di privilegiare nella prima parte l’aspetto tragico: il dramma della gelosia visto non solamente nell’accezione personale di un uomo geloso della propria moglie, ma più in generale di possesso maschile del corpo e della mente della donna. Ieri, come oggi, Ermione è accusata di aver complottato contro il trono (e il re, suo marito) ma, soprattutto, di averlo tradito – avere esercitato quindi la libertà di scelta e di imperio sulle proprie passioni e desideri – e, al di là dell’innocenza di Ermione, quello che si inscena è il dramma, ieri come oggi, della donna, di una donna – Ermione come Sakineh Mohammadi Ashtiani o Teresa Lewis – che è condannata, innanzi tutto, perché non può né deve essere padrona di sé.

Su una scenografia spoglia, avvolto da giochi di luci e ombre, bianco su bianco, a tratti surreale, ecco che Ferdinando Bruni dà vita a un Leonte ferocemente tragico, archetipo della gelosia più dello stesso Otello perché qui la gelosia si nutre di se stessa e non vi è altri da incolpare – nessun Jago che stilli nell’orecchio il veleno del sospetto. La scena dell’abbandono di Perdita ha la forza delle immagini della mente. Cala il sipario sulla prima parte. Mirabile.

La seconda parte, purtroppo – come si scriveva – è ancella dei tempi. Dalla tragedia, Shakespeare si volge verso l’idillio pastorale, giocando con tutti i generi teatrali ma, al romanzo cavalleresco un po’ datato, giustamente Bruni e De Capitani sostituiscono il comico. Ne è un esempio il fatto che il Bardo abbandoni i suoi splendidi monologhi e dialoghi in favore del racconto e la scena del disvelamento – quando si scopre la vera identità di Perdita quale figlia di Leonte e quest’ultimo si riconcilia con Polissene, ingiustamente accusato di aver avuto una relazione con Ermione – non sia agita dagli interpreti bensì riferita dai testimoni oculari: illustri cavalieri.

La genialità dei registi è quella di confezionare una messinscena in cui sono i servi a raccontare l’episodio creando un momento di comicità pura godibilissimo. Ma nonostante queste chicche di teatralità autentica, la seconda parte è un coacervo di generi e battute – che, a volte, rasentano il prolisso e il macchinoso, come nel finale con la trasformazione della statua di Ermione in donna; e, altre, la fulminea bellezza della verità teatrale che è, insieme, autenticità umana, come quando Leonte rimprovera a Paolina di ricordargli i suoi errori troppo spesso o quando quest’ultima riprende Leonte per gli sguardi pieni di cupidigia lanciati a Perdita – prima di saperla sua figlia. Alti e bassi insiti in un testo diseguale in partenza.

E alla fine, nonostante l’happy ending conciliatorio e conciliante, resta l’amaro in bocca per quell’accusa contro Ermione che si vuole condannata a morte per adulterio, colpa peggiore dell’omicidio. E Shakespeare appare improvvisamente non più come l’autore al tramonto che cerca di contrastare i masque coi mezzi del suo teatro, bensì come il cantore sublime della donna e della sua dignità: di Ermione, di Sakineh, ma anche di Teresa Lewis (giustiziata con un’iniezione letale negli Stati Uniti per il tentato omicidio del marito, in un mondo di uomini che uccidono quotidianamente le donne senza subire la medesima, disumana condanna).

C’era una volta un ulema, un rabbino, un sacerdote, un giudice e una donna. Era mattino e l’aria era tersa. I quattro uomini e la donna si sedettero sotto un albero e la donna prese la penna e cominciò a riscrivere i libri.

Ma questo è un altro racconto…

Lo spettacolo continua:
Elfo Puccini
– Sala Shakespeare
corso Buenos Aires 33 – Milano
dal 20 ottobre al 13 novembre
orari: feriali ore 20.30, domenica ore 16.00
(durata 2 ore e un quarto compreso intervallo)

Il racconto d’inverno
di William Shakespeare
regia, traduzione, scene e costumi Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
con Ferdinando Bruni (Leonte), Cristina Crippa (Paulina/Mopsa), Elena Russo Arman (Ermione/Dorca), Corinna Agustoni (Emilia/la trattora), Luca Toracca (Cleomene/sguattero), Cristian Giammarini (Polissene), Nicola Stravalaci (Camillo/maggiordomo), Federico Vanni (Autolico/carceriere/il Tempo), Enzo Curcurù (Antigono/il cuoco), Alejandro Bruni Ocaña (Florizel/cortigiano/medico), Carolina Cametti (Perdita/Mamillio), Umberto Petranca (Zotico/Archidamo/medico)

luci di Nando Frigerio

produzione TEATRIDITHALIA
luci di Nando Frigerio
produzione TEATRIDITHALIA
Prima Nazionale