L’anello debole. Non puoi raccontare “stronzate” agli uccelletti

Con un’unica data in Liguria (e Toscana), FrattoX di RezzaMastrella riempie il Teatro Civico di La Spezia di un pubblico entusiasta. 

Prima di cominciare, una breve introduzione: da spettacolo particolare qual è, Fratto X ha creato un’esperienza particolare che porta a una recensione particolare. Controverso, labirintico. Non possono uscirne che lampi di critica che entrano in contrad – di – z – iii- ooo – ne (imitando lo stesso Rezza). Detto questo, iniziamo.

L’anello debole: il pubblico. Quello che, con il suo sostegno e interesse, coproduce spettacoli di scarsissima qualità per la Tv, ma forse anche quello che in teatro ha riso per tutta la serata (in fondo, il minimo comun denominatore rimane sempre quello: la gente, ovvero lo spettatore medio). È lui l’anello debole, quello che non sa dove deve guardare, cosa deve fare, per cosa deve ridere oppure non farlo (sintomatico, a questo proposito, lo scoppio di risa quando sul finale Rezza minaccia di far immaginare, nuda e stuprata, una spettatrice che non obbedisce alle sue richieste – fatto che, già in sé, se è voluto è significativo, e se non è voluto è imperdonabile errore). Momenti stupidi, come in Tv, con un format televisivo, e la comicità idiota che si ritrova in televisione (solo un po’ più estrema) – questo è Fratto X. Nella forma, si ripensa agli show della Dandini, o anche alle carrellate di personaggi di un Mai Dire Gol, o di Crozza. Sembra di trovarsi davanti a una strana forma di contenitore televisivo per oscenità argute, o meglio ancora a una strana Corrida di diavoletti e grotteschi spiritelli dell’assurdità. Una carrellata di quadretti in cui sono trasfigurate, a mostrarne il risvolto assurdo, le varie vicissitudini della nostra esistenza.
Si sa, le aspettative giocano sempre dei brutti tiri, questo va ammesso: un premio alla carriera alla Biennale di teatro di Venezia, la promessa di un canto dell’assurdo, la descrizione dei famosi habitat – che dovrebbero essere autentiche opere d’arte. Ci si aspetta di tutto e di più. Al contrario, non si fa che arrovellarsi perplessi: cosa continua a sfuggire? Se sono stati premiati ci sarà un motivo. Così lo inseguo, lo spettacolo – come un cane da caccia dietro la sua preda – ma la preda scappa saltando e facendo le boccacce.
Ripenso alla Pervert’s guide to cinema di Slavoj Žižek. All’interpretazione che offre di Harpo Marx e della sua forza vitale, del caos e della crudeltà di quella forza, amorale. Raffigurazione di un Es fatto di innocenza e crudeltà. Ma qui non è così: pensare ad Harpo aiuta, forse, ma manca del tutto l’innocenza. C’è troppa mente, troppa costruzione, troppo linguaggio, una malizia (in fondo dolorosa, forse) tutta irrimediabilmente adulta: il fanciullo, violato da piccolo, è per sempre segnato dai tagli profondi dell’adultità. Scalcia e scalpita, si ribella, ma non è libero. La spensieratezza autentica è morta e resta solo quella di recupero, quella ribelle – imbevuta e segnata dalle azioni dei grandi. Lo spiritello è prigioniero della crudeltà dell’adulto e della sua grettezza.
Assurdo. Parola fuorviante: si pensa a Beckett, e poi agli altri. L’assurdo di Fratto X non è metafisico, vive in slittamenti del linguaggio e delle situazioni, esplorate nel loro non-senso, portandone in luce la loro quotidiana, banale demenza. L’analisi intellettuale delle idiozie del mondo e dell’educazione prende vita in personaggi e scenette. L’assurdo sta nel puntare il dito sulle cose crudeli della vita, facendone gag che sono provocazioni e operazioni di smontaggio linguistico, retorico e teorico. Il tutto impastato in un comico volgare (un classico da Aristofane), con l’uccelletto volante che indispone il pubblico bene, o il personaggio deviante che si approfitta dei cavalli prima di mangiarseli.
Rimane la risata a compiere l’azione di scardinare, con la volgarità gratuita a tastare, a sondare i limiti di sopportazione del pubblico e i suoi timori (perfetta la descrizione dello stato d’animo quando si paventa il ritorno dell’uccelletto). Vi sono tanti modesti (negli effetti e nelle dimensioni) scardinamenti, tanti schiaffi, frasi pesanti buttate in faccia agli spettatori (esemplare, nei momenti finali, la frase: «Mi trovo uno scemo, ci faccio un figlio e chiudo la partita»). C’è crudeltà, freddezza. Il piacere di toccare la carne là dove è ferita. E farci un ghirigoro. Come chi si approfitta dei più deboli – insultandoli e divertendosi.

I vari quadri sono pezzi che stanno come minerali spigolosi, taglienti – intelligenti anche, in qualche punto. Non possono essere presi in mano, o compresi, a meno di ferirsi o essere scottati.
Ricavarne il loro segreto intelligente sembra fuori luogo. Anche solo leggere le note di regia, dove si spiega il senso di diverse scene, toglie quel poco di mistero e fascino (necessario soprattutto quando c’è poca vera, densa sostanza). Buone idee, qualche spunto interessante, ma tutto resta in superficie senza affondare davvero, senza mantenere la promessa. Emblematica la resa della mamma-mostro. È significativo ed esemplificativo di un carattere dello spettacolo, il fatto che pur essendo questo uno tra i personaggi chiave dell’inferno personale di chiunque – psicologia docet – la raffigurazione della mamma-mostro non riesca a toccare corde davvero profonde e resti a livello di concetto teorico, pur sempre valido e portato in scena in modo graffiante, ma senza profondo riverbero.
Niente da dire sull’arte dell’attore, macchina micidiale che non sbaglia un colpo in giochi di bravura e prestidigitazione attoriale. Come una specie di diavolo (quasi ad attingere all’origine delle maschere della Commedia dell’arte, vicine ai demoni), Rezza si gode il privilegio e il lusso di indossare la maschera di chi può essere ciò che è, attingere a un’energia distruttiva, folle, sempre e senza vergogna, senza timore, a sbeffeggiare ogni cicatrice altrui, buttandogli in faccia la meschina verità della sua vita. Ribellione alla famiglia, all’educazione, all’uccisione della spensieratezza: il diavoletto mostra tutto il nostro marcio stupido. Già, perché il marcio dell’umanità ha la particolare peculiarità di essere stupido, nel quieto (e inquietante) rapporto di demenza e forma. Eppure, come dimostra l’attore, se togli il velo (che conferisce la forma) rimane solo la demenza. Il meccanismo è semplice: togli il velo e vedi la demenza. Togli il velo e vedi la demenza. Togli il velo e vedi la demenza. “E allora togli ‘sto cazzo di velo spettatore!” penso.
Eppure il pubblico in sala ride. Fatto che non stupisce, perché, afferma Rezza: «Un teatro civile per un Paese civile è un’utopia – non per la civiltà del teatro, ma per l’inciviltà del Paese». E così nella propria inciviltà gli spettatori si divertono, gli applausi a scena aperta si susseguono dall’inizio alla fine, insieme alle risate entusiaste. È questo l’assurdo che ci piace? Quello che ci possiamo permettere? O questo è l’assurdo che si può o che deve essere inflitto al pubblico?
Molto fumo. Molte risate. Agli uccelletti non puoi raccontare stronzate, ma al pubblico sì. L’anello debole del teatro. Fratto X vuole esserne la dimostrazione?

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Civico
piazza Mentana, 1 – La Spezia (SP)
sabato 1° dicembre, ore 20.45

Fratto X
di Flavia Mastrella, Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista
(mai) scritto da Antonio Rezza
habitat Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Mattia Vigo
rielaborato da Daria Grispino
organizzazione generale Stefania Saltarelli
macchinista Andrea Zanarini
una produzione RezzaMastrella – Fondazione Teatro Piemonte Europa – TSI La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello