Sogni situazionisti

Geografie di un sogno e altre solitudini riesce nel difficile compito di funzionare come un evento teatrale senza esserlo. Sulla scia delle sperimentazioni situazioniste, i partecipanti intrecciano i loro vissuti con quelli degli attori professionisti, assumendo uno sguardo obliquo su se stessi e sui contesti narrativi proposti. Sullo sfondo, l’appello politico a riaffermare la propria esistenza nella sua unicità.

Quante mezze ore si susseguono in una giornata, senza prestarvi particolare attenzione. Quante tonalità emotive – diverse e sovrapposte – colorano i nostri pensieri, le nostre azioni, le nostre deliberazioni più o meno ponderate. Quanto è inaggirabile il nostro essere sempre in (una) situazione, essa si sposta con noi, come il limite dell’orizzonte si muove insieme al nostro sguardo. Da qui discende l’impossibilità di essere de-situati, di sorvolare il mondo assumendo un punto di vista assoluto, di posizionare lo spettatore al di fuori dello spettacolo, cui inestricabilmente appartiene.

«Non c’è libertà che in una situazione – osserva Sartre – e non c’è situazione che mediante la libertà. La realtà-umana – continua il filosofo francese – incontra dappertutto resistenze e ostacoli che non ha creato; ma queste resistenze e questi ostacoli non hanno senso che mediante la libera scelta, che la realtà umana è» (L’essere e il nulla). In altri termini, la libertà è una condanna e persino ciò che non abbiamo scelto richiede una nostra scelta. Tale originaria condizione esistenziale, così palese nella vita quotidiana, non può non essere recepita dal teatro, che deve dunque abbandonare il cielo delle astrazioni compositive o istrioniche e scendere sulla terra delle performance concrete e estemporanee.

È attorno a questo nucleo concettuale che si dipana il viaggio proposto da Fabrizio Funari, giovane drammaturgo di talento che vanta una formazione eclettica e una spiccata curiosità verso forme espressive diverse. Un viaggio che, in modo unico e irripetibile per ogni partecipante, si sviluppa entro le coordinate teorico-pratiche dell’immersive theatre e dell’avanguardia situazionista. La linea sottile che separa il palco dalla platea è stata eliminata e lo spettatore diviene protagonista della scena, insieme agli attori che lo accolgono e lo sollecitano. Détournement, deriva e flanêrie sono gli ingredienti di un esperimento non-teatrale, che decostruisce il senso abituale dei contesti e li risemantizza; rompe con le tradizionali unità aristoteliche di luogo, di tempo e di azione, giustapponendo spazi e narrative tra loro sconnessi; induce il viaggiatore a vagare senza meta, a imbattersi nell’inatteso, a navigare lungo i confini della sua geografia interiore. Si tratta di attuare il superamento della dimensione alienante dello spettacolare in quella più autentica della situazione vissuta: «lo spettacolo – osserva Debord – è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine» (La società dello spettacolo), grazie al quale ciò che accade diviene rappresentazione non-vivente, merce di scambio, feticcio. Al contrario, creare situazioni equivale a rivitalizzare la realtà, a trattarla come un gioco, criticando il carattere cosale del rapporto tra le persone e rivelando il carattere sociale del rapporto tra le cose: «il mondo – conclude Debord – possiede già il sogno di un tempo di cui non ha che da possedere la coscienza per viverlo realmente» (La società dello spettacolo).

La mezz’ora trascorsa passando attraverso sei stanze, dettagliatamente predisposte da Davide Signorini, si configura come un’esperienza difficilmente inquadrabile nei dispositivi del teatro tradizionale, basato sulla centralità del testo drammaturgico e sulla dicotomia attore/spettatore. Le stanze sono a un tempo atmosfere (ambiance) e ambienti di vita (milieu), che il viaggiatore è chiamato ad abitare, attingendo alle sue risorse personali, al suo desiderio di attivazione e alle sue categorie interpretative. Ambiance, in quanto ci troviamo gettati all’interno di sei climi emotivi inaspettati, che subiamo e ai quali dobbiamo adattarci: la prima impressione è quella che conta. Milieu, in quanto si tratta di contesti organizzati, formati da segni che dobbiamo decodificare, prima di agire un qualsiasi comportamento: le parole e i gesti degli attori, i costumi da loro indossati e gli arredi rappresentano, infatti, degli stimoli che esigono la nostra elaborazione e richiedono il nostro intervento.

Non ci è possibile raccontare nel dettaglio i tableaux vivants in cui Fabrizio immerge i singoli partecipanti, avendo firmato un accordo di riservatezza che garantisce ad altri la possibilità di sperimentare ogni volta ex novo l’itinerario drammatico suggerito: divulgarlo avrebbe l’effetto di ridurne la portata demiurgica ed euristica. Ci limitiamo a dire che, dopo un iniziale spaesamento, dovuto alla necessità di abbandonare il più consueto ruolo di spettatore passivo, è affiorato in noi il desiderio di giocare la parte che ci veniva assegnata. La libertà di scelta non riguarda, infatti, la posizione che è stata pensata per noi e che – stanza dopo stanza – è lì, pronta a riceverci, ma il modo in cui decidiamo di agirla o recitarla. Rispondendo al richiamo dell’auto-osservazione, ci siamo così scoperti alternativamente dentro e fuori, non solo rispetto alle situazioni – talora estreme – che ci vengono proposte, ma anche alle nostre percezioni e perturbazioni emotive, alle nostre associazioni di pensieri. Non siamo, tuttavia, persuasi che l’esito di questa esperienza sia la catarsi, ovvero l’emersione – per quanto parziale e momentanea – di una parte più autentica di noi stessi: è difficile spingersi oltre quell’area transizionale tra retroscena e ribalta che ci permette di vederci comunque recitare una parte. Quando assumiamo un ruolo, osserva il sociologo Goffman, il nostro sé «non ha origine nella persona del soggetto, bensì nel complesso della scena della sua azione, in quanto scaturisce da quegli attributi degli eventi locali che la rende comprensibile ai testimoni» (La vita quotidiana come rappresentazione). Detto altrimenti, non appena comprendiamo la richiesta del pubblico, ci viene spontaneo sostituire alcune routine comportamentali con altre, allo scopo di controllare le impressioni degli altri su di noi e di allestire una rappresentazione congruente: «una scena ben congegnata e rappresentata induce il pubblico ad attribuire un sé a un personaggio rappresentato, ma ciò che viene attribuito – il sé – è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa» (La vita quotidiana come rappresentazione). L’originale pièce di Funari ha il merito di rovesciare i poli di una dialettica altrimenti data per scontata, creando delle situazioni in cui gli attori divengono il nostro pubblico e noi – il pubblico – diveniamo consapevoli di essere degli attori.

Lo spettacolo è andato in scena
Location segreta (Roma centro)

dall’11 al 13 settembre e dal 17 al 20 settembre
slot su prenotazione on-line

Geografie di un sogno e altre solitudini
scritto, sviluppato e diretto da Fabrizio Funari
con Davide Varone, Vittorio Laera, Carmine Barbato, Ludovica Calabrese, Sergio Sozzi, Tiziano Ferracci, Oreste Di Salvo, Nazzareno Traini, Simona Pace, Anastasia Castagno, Ivan Di Bello, Simone Fabiani, Oltea Pelin, Giuliana Pirrone, Francesca Macci, Roberta Andronico
scenografie e costumi Davide Signorini