Lo specchio dell’esistenza consumata

Al Teatro India, fino al 10 aprile, Nicoletta Braschi interpreta Winnie, la protagonista di Giorni felici, riflesso angosciante di ciascuno di noi.

La grandezza di un autore come Samuel Beckett è misurabile nel fatto che il suo teatro, lancinante e tenebroso, ha come oggetto della sua spietata indagine sempre l’essere umano. Come è sbagliato, per non dire ipocrita, interpretare in chiave femminista Madame Bovary di Flaubert e diversamente da chi, nel secolo scorso, ha tentato di mettere al centro una figura specifica dell’alveare umano (donne emarginate, invalidi, anziani, adolescenti), rivendicando più o meno esplicitamente la capacità di farsi interprete delle loro rispettive tragedie specifiche e private, Beckett scruta con sguardo cinico ognuno di loro facendone un exemplum della generale e assoluta condizione di frustrazione e dolore infinito che ogni essere umano porta su di sé da quando mette piede su questo pianeta. I suoi personaggi possono essere uomini, donne, vagabondi, borghesi, ma in ognuno di loro può riflettersi chiunque altro, perché (ed è questa d’altronde mission specifica del teatro) specchiandosi in quei personaggi può sentire e provare la propria condanna.

Erroneamente si è parlato di teatro dell’assurdo, perché Beckett non parla mai didascalicamente dell’insensatezza della vita, dal momento che questo significherebbe essere in grado di distinguere ciò che assurdo da ciò che non lo è. L’unica possibilità è restare nell’attesa infinita di qualcosa, dimorare nello spazio della ripetizione catatonica e sprofondare nella propria vita: vedere e leggere Beckett significa cogliere amaramente la quintessenza della propria vita, uscirne dilaniati e confusi, percepire l’insensatezza nell’eterno ritornare di gesti e parole vuote di significato. Così accade per un testo come Giorni felici, sarcastico fin dal titolo, che ha per protagonista una donna di mezza età sommersa nella terra, impossibilitata a muoversi realmente, che si lascia vivere e che comunica col pubblico attraverso un lungo, delirante e folle soliloquio. Allegoria quanto mai dirompente dello stato di passività che caratterizza l’umanità moderna, i cui uomini e le cui donne sono incapaci di rapporti autentici, circondati dal deserto e dalla catastrofe che sono proiezioni di uno stato interiore, dove l’unico riscatto morale e utopico, come sosteneva un grande stimatore e interprete dell’arte di Beckett come Theodor W. Adorno, consiste nella capacità che quest’opera ha di fare luce sul nostro presente, stimolando in noi il bisogno e il desiderio di cambiare.

Al Teatro India, è in scena fino al 10 aprile proprio Giorni felici, per la regia di Andrea Renzi, con Andrea Renzi e Nicoletta Braschi; la dimensione metafisica del dolore umano viene restituita in una regia senza grandi stimoli, attinente al testo e se vogliamo fin troppo lineare. Sfugge il significato della grossa lamiera sullo sfondo, mentre la montagna di terra che ricopre Winnie, la protagonista, così come il disegno luci, è chiaro ed esaustivo al punto da essere scolastico. In altri termini, regia si adegua al testo beckettiano, ma esclude un qualsiasi slancio autoriale del regista (in passato, molti hanno optato per la luce piena, altri per il carattere crepuscolare tipico del testo di Beckett, qui invece si resta sul vago), e anche la chiusura col faro puntato sulla testa di Winnie è qualcosa di prevedibile e di già visto; il confronto può essere fatto con un Giorni felici registicamente e attorialmente più convincente, ovvero quello andato in scena diversi anni fa al Teatro Eliseo e interpretato da una straordinaria Anna Marchesini. D’altronde, Winnie porta con sé un’eredità gravosa e tra le attrici che l’hanno interpretata compaiono Laura Adani, Giulia Lazzarini e la citata Anna Marchesini.

L’interpretazione di Nicoletta Braschi non sembra riuscire a reggere il confronto con queste ultime: un testo caratterizzato dal ritmo, un ritmo paradossale perché espressione dell’eterna immobilità e della nullificazione dell’interiorità, viene restituito dalla Braschi senza vigore. Non che il vigore fosse necessario, attenzione: ci si può affacciare sul teatro di Beckett o attraverso l’energia come sinonimo di psicosi e delirio, o in maniera meccanica e “svogliata”, ma nell’interpretazione della celebre attrice manca in effetti il momento dialettico della coscienza che il personaggio ha di essere tale, ovvero un qualche eccesso, o una qualche esagerazione. Brava è la Braschi a non cadere nel tranello di risultare comica, perché Beckett non fa e non deve far ridere, al massimo può generare (anzi, deve generare) un sorriso malinconico che è piuttosto l’espressione dello strazio dell’anima, una sorta di reazione nel comprendere quale sia lo stato in cui ciascuno di noi è gettato inesorabilmente.

Nell’attrice però manca la verve dell’attrice che recita se stessa, che tenta di dichiararsi felice quando è evidente la sua condanna, che rivela l’insensatezza di tutto attraverso la ripetizione costante e martellante che fa a se stessa e a noi pubblico che tutto abbia un senso. Sarebbe servita una maggiore sintonizzazione con l’universo e la filosofia di Beckett, perché un’opera di Beckett non è solo un dramma da portare in scena in questa o quest’altra maniera, ma piuttosto un varco verso l’abisso, uno specchio dove compariamo per la prima volta, lo sguardo della Gorgone che ci lascia senza speranza, perché smarrire ogni speranza è la sola possibilità di ritrovarla.

Lo spettacolo continua:
Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman 1, Roma
dal 31 marzo al 10 aprile 2016 ore 21.00
venerdì 8 aprile ore 19
domenica ore 19
lunedì riposo

Melampo e Fondazione del Teatro Stabile di Torino presentano
Giorni felici
di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
regia Andrea Renzi
scene e costumi Lino Firoito
luci Pasquale Mari
suono Daghi Rondanini
aiuto regia Costanza Boccardi
con Nicoletta Braschi e Andrea Renzi