Quando il nulla accade

Nicoletta Braschi torna in scena nei panni di Winnie, la logorroica protagonista di Giorni felici. Interrata fino alla vita, braccia e spalle nude, corpetto scollato, l’attrice romagnola si è cimentata a più riprese nel testo beckettiano, a partire dal 2013, diretta sempre da Andrea Renzi, rivelandosi un’interprete sensibile e attenta, seppure eccessivamente accademica.

«Eh sì, se solo avessi il coraggio di star sola, voglio dire di muovere la lingua senza che un’anima mi stia a sentire. Non che mi illuda che tu stia a sentire tutto, Willie, Dio me ne guardi. Certi giorni, forse, non senti addirittura niente. Ma ci sono alcuni giorni in cui rispondi […] È questo che mi permette di continuare, continuare a parlare, cioè. Mentre se tu dovessi venire a morte … per dirla nel vecchio stile… o andartene e lasciarmi, che cosa farei, io, che cosa potrei mai fare, tutto il giorno, voglio dire, tra il campanello del risveglio e quello del sonno?». In queste parole, indirizzate da Winnie a Willie all’inizio del primo atto, è possibile compendiare l’intera trama di Happy days, il dramma scritto in inglese da Beckett nel 1961 e pubblicato l’anno seguente, al culmine del processo di destrutturazione cui aveva sottoposto la forma teatrale. In Aspettando Godot e Finale di partita si assiste alla progressiva scarnificazione della finzione scenica e del significato delle battute, in L’ultimo nastro di Krapp alla scomparsa del dialogo tra i personaggi, in Giorni felici alla riduzione della gestualità degli attori, costretti ad una surreale immobilità.

Di fronte alla progressiva abrogazione degli elementi di cui si compone la rappresentazione teatrale, il pubblico è obbligato a focalizzare la sua attenzione su alcuni singoli aspetti, solitamente amalgamati nel flusso della performance. Nel nostro caso, le voci di Winnie e di Willie, la loro mimica facciale e i loro esigui movimenti, i pochi oggetti presenti sulla scena, le luci. Sulla scia di Aspettando Godot, anche in Giorni felici, non esistono punti di riferimento spaziali o temporali: si tratta di ingannare l’attesa, scandita dal trillo di un misterioso campanello fuori scena, che regola il ciclo del sonno e della veglia. La funzione della parola è quella di mostrare l’impossibilità stessa della parola, come attestano le dilaganti divagazioni verbali di Winnie, che continua ostinatamente a parlare, soprattutto dei suoi ricordi, nella speranza che il marito la ascolti.

Nicoletta Braschi assolve al compito con una perizia attoriale che sfiora l’accademismo: è convincente nei passaggi più comici o nonsense, ma la sua voce non si inquieta né si scurisce in quelli più drammatici. Certo, Winnie, alla fine del secondo atto, oramai quasi interamente inghiottita dalla collinetta, accondiscendendo all’allucinante senso di paralisi che la pervade, trova ancora la forza di dire: «Win! (Pausa) Oh, ma questo è veramente un giorno felice, sarà stato un altro giorno felice! (Pausa) Dopo tutto. (Pausa) Finora». Ma la sua leggerezza non va scambiata per letizia; assomiglia piuttosto al serio gioco dell’ironia.

Come osserva Jankélévitch, l’ironia non si colloca a metà strada tra il tragico e il comico, perché è la vertigine che li contrappone o li alterna: «suscita il riso senza aver voglia di ridere, e prende in giro freddamente senza divertirsi; è beffarda, ma cupa. O meglio: scatena il riso, per raggelarlo immediatamente. E la ragione di tutto questo è che in essa c’è qualcosa di contorto, di indiretto, di agghiacciante in cui presentiamo la profondità inquietante della coscienza: perciò l’allegria si muta rapidamente in disagio e in tensione» (L’ironia). Non a caso, il copione beckettiano è punteggiato da frequenti didascalie che impongono all’interprete di interrompere le battute con delle pause, di accompagnarle con un’espressione perplessa o con sorrisi che cadono, con lo sguardo fisso e le labbra serrate o con repentini movimenti degli occhi e del volto, che non dovrebbe essere posizionato sempre verso la sala, come nell’allestimento di Renzi, ma voltarsi verso di essa solo in alcuni cruciali momenti. La stasi della parola e del senso, l’inerzia della trama e dei corpi, la percezione di essere sopravvissuta a una catastrofe, frammista all’attesa vana di qualcosa o di qualcuno, ci invitano ad assumere un diverso atteggiamento nei confronti del tempo: non più concatenazione lineare di fatti, ma adesione all’istante che si dilata o si restringe, e in cui emergono innumerevoli dettagli, sebbene non avvenga nulla di speciale.

Nella fessura dell’istante si agita l’incalcolabile movimento dell’esistenza, l’inspiegabile felicità di Winnie, che vive di emozioni e pensieri frammentari, di residui di memoria, e che cerca affannosamente qualcuno a cui parlare (Willie? il pubblico?). La voce della Braschi non tradisce la presenza di questi sommovimenti interiori, non varia secondo il colore degli istanti, è intatta e uniformemente lieta, restituendo l’immagine di un personaggio che è ancora un io, un cogito, e cioè un soggetto padrone di sé. L’immobilismo beckettiano – se compreso a fondo – è invece fortemente drammatico, a condizione che si metta in luce l’angosciosa ricerca di un allocutore. La voce, per definizione, è duale: se non ci fosse nessuno ad ascoltarla, nemmeno io stesso, non esisterebbe affatto. È questo, per dirla con Freud, il fantasma primario di Winnie, angustiata dall’eventualità che Willie un giorno debba morire e che nemmeno lei possa più ascoltarsi.

Un’ultima considerazione sull’uso della luce, che dopo Winnie è la deuteragonista della pièce. Un plauso a Pasquale Mauri, che proietta sul palcoscenico la luce dell’alba, del giorno, del crepuscolo, ponendo attenzione alle sue varie gradazioni, perfino a quelle notturne. Come in altre opere di Beckett, precedenti e successive, è proprio la luce a fare da cornice alla rappresentazione e a intrigare lo spettatore. La modulazione di luce calda e fredda, così come la sua distribuzione diffusa contribuiscono a creare un’ambientazione naturalistica, in stridente contrasto con lo spazio scenico post-apocalittico, l’incontinenza verbale di Winnie, il patetico trascinamento di Willie sul palco.

Se il teatro – originariamente – è spettacolo (dal greco theáomai, guardare, essere spettatore), è ciò che vediamo – l’immagine di Winnie interrata – a inquadrare ciò che ascoltiamo: chiacchiere senza perché, una cascata di luoghi comuni, rispetto ai quali – data l’insolita situazione di Winnie – ci risulta impossibile capire a cosa si riferiscano davvero. La luce ci fa vedere Winnie che parla, ma non ciò che dice attraverso le sue parole, anzi lo adombra.

Lo spettacolo è andato in scena
Auditorium Parco della Musica

Viale Pietro de Coubertin, 30 – Roma

Compagnia della Luna presenta
Giorni felici
di Samuel Beckett
traduzione di Carlo Fruttero
regia Andrea Renzi
con Nicoletta Braschi e Francesco Paglino
luci Pasquale Mari
scene e costumi Lina Fiorito
suono Daghi Rondanini
aiuto regia Costanza Boccardi