Ritratti d’autore

Giulia Lombezzi è una giovanissima drammaturga, Delia Rimoldi, una giovane regista. Il loro primo spettacolo insieme, Requiem per un Lemming, tra il 16 e il 25 ottobre ha inaugurato un nuovo spazio teatrale a Milano, in una zona – quella di Corso Lodi/Corvetto – che sta lentamente prendendo vita grazie a spazi culturali differenti tra loro come l’Ohibò o la Fondazione Prada.

Il Dilà – così si chiama – offre da oggi il suo contributo, con un’anima di teatro off. Requiem per un Lemming racconta di tre ragazzine che fanno sempre lo stesso gioco, finché un giorno qualcosa va storto. Ognuna vive quell’istante da una prospettiva e con un’emotività diversa, ma in tutte e tre qualcosa si spezza: si crea un vuoto, una debolezza, un bisogno. Soprattutto, una solitudine. Quando nel buio si cerca un rifugio, è facile cadere in una rete. E così, ognuna per la sua strada, le tre ragazze cadono in reti diverse: due si avvicinano a forme di satanismo, passando prima, in un caso, da un convento carmelitano; l’altra entra nel mondo di Scientology. «Ogni passo in queste strade costa loro la rinuncia a un pezzo di sé. Ma la solitudine fa troppa paura. E, ormai, hanno barattato troppo. O sei dentro o sei fuori».

Come avete iniziato a lavorare insieme?
Delia Rimoldi: «Ho visto Giulia in scena in Diario di un’ape operaia, di cui ha scritto anche il testo, e ho capito che sarebbe stata perfetta per quello che avrei voluto vedere messo in scena nel mio spazio. E quindi l’ho contattata. In un certo senso, diciamo, che gliel’ho commissionato. La sera quando non riesco a dormire guardo video su youtube. Ho iniziato a guardarne alcuni sulle Bestie di Satana e mi hanno impressionata perché sono fatti accaduti quando io ero ragazzina e frequentavo quei locali: andavo al liceo e al Midnight ci sono stata più di una volta; l’hanno chiuso per fatti legati alle Bestie di Satana. Se vedo le interviste di quegli anni, erano persone simili ai miei compagni di classe: stessi capelli, stessi vestiti. E quello che è successo per me è incomprensibile, per quanto frequentassi quei locali».

Ma non ha mai vissuto nulla di tutto ciò in prima persona?
DR: «No, direi di no. A parte buffi tentativi di autolesionismo da ragazzini, no».

E il filone legato alla suora, da dove viene?
DR: «Ho frequentato molto anche l’ambiente cattolico, l’oratorio. Tante delle cose che Giulia ha scritto vengono da episodi che ho vissuto all’epoca, come la suora che mi portava sotto un pino e mi chiedeva se non sentissi la vocazione. Andavo a scuola dalle Carmelitane che si lavavano con una tunica bianca addosso perché non si potevano toccare la pelle. Sono un’ordine strano perché sono molto rigide, ma poi stanno con le ragazzine».

Gli altri due filoni sono Jim Jones e Scientology.
DR: «All’inizio a ispirarci è stata proprio la setta di Jim Jones: il più grande sucidio di massa del ventesimo secolo. Il reverendo Jones aveva più di 900 adepti. Stavano nelle Guyana Francese, scappati dagli Stati Uniti dove cominciavano già a esserci indagini su di loro. Hanno comprato un territorio al di fuori delle leggi degli Stati Uniti e ci hanno costruito un villaggio autosufficiente, che per loro doveva essere il sogno di una vita migliore, e che è finito con l’omicidio di un giornalista e poi col suicidio di massa. Il documentario che ho visto è stato un pugno allo stomaco.
Poi c’è stata Scientology, che per noi era la più lontana. Siamo andate alla sede di via Torino, prima lei poi anch’io, fingendo di essere interessate».
Giulia Lombezzi: «Loro ti fanno compilare un questionario sulla personalità da cui riescono a mettere in evidenza le tue carenze e ti dipingono come un soggetto assolutamente problematico e ti trattano con condiscendenza, come un malato. E se anche solo hai un momento di debolezza, un’insicurezza, loro hanno l’abilità fenomenale di giocare su quello e farti sentire incompleto e bisognoso d’aiuto. Lo scopo è convincerti che l’unico modo di salvarti siano loro e che se non vuoi farlo sia perché tu non sei pronto; e se non ti iscrivi subito è perché tu hai paura di affrontare la vita – e l’unico modo di affrontarla è affidarti a loro».

Che è un po’ quello che avviene non solo in ogni setta, ma, potenzialmente, con chiunque si ponga come Maestro in maniera chiusa e assoluta…
DR: «Esatto. Infatti a noi interessava indagare la manipolazione, vista da diverse angolazioni, ma in generale quella che viene esercitata su persone che hanno un bisogno che non riescono a colmare in nessun modo, e non sanno come fare, perché è lì che parte la prima sottile manipolazione; poi diventa sempre più importante. Quindi diciamo che è nato così questo lavoro, poi Giulia ha capito perfettamente in che direzione volevo andare».

Quindi lei ha raccontato le proprie esperienze tra il Midnight e le suore Carmelitane e Giulia ha scritto a partire da questi racconti. Vi siete riconosciuta in quello che lei ha scritto?
DR: «Sì, infatti non pensavo sarebbe riuscita centrare così bene quello che per me era il nocciolo».

È stata la prima occasione di lavoro insieme? La chiave che avete usato è stata l’ironia?
DR: «Sì, è la prima volta, e il fatto che mi piaccia molto come scrive ha aiutato sicuramente. E mi piace anche la sua ironia: riesco a lavorare bene per questo, non credo sarebbe stato lo stesso con un testo diverso. Per me l’ironia è fondamentale per affrontare determinati temi. Fa parte della vita di tutti i giorni, almeno per me, è il mio modo di vedere le cose e non toglie secondo me drammaticità alla storia: una storia solo drammatica, anzi, rischia di non esserlo fino in fondo».

Nel lavoro di scrittura, come si è mossa? Le apparteneva come tematica?
GL: «Per vari motivi, sì. Il punto di partenza è stato Jim Jones, che noi abbiamo scelto di raccontare attraverso i lemming perché a me piace usare metafore etologiche per raccontare la realtà umana, è molto più facile. Quando abbiamo iniziato a parlarne ho ripescato una serie di episodi di manipolazione che ho incontrato nella mia vita e mi ha sempre colpito il fatto che certe regole diventino talmente forti da determinare il corso di una vita intera, come l’episodio di Gesù buono diavolo cattivo. Anche perché un ambito importante in cui agiscono forme di manipolazione è la religione cattolica, con quella divisione tra anima e corpo che considera tutto ciò che è natura come “contro-natura”».

E invece i Lemming da dove venivano? La loro storia è separata da tutto il resto, eppure hanno tanta importanza da dare titolo allo spettacolo. Attraverso di loro si racconta la storia di Jim Jones… Si assiste a questa corsa verso la morte, delicata e terribile.
GL: «I Lemming vengono da un libro che avevo letto da bambina di Alan Arking Io, un Lemming. È una storia francese che segue tutta la vita di questo Lemming che scopre che un giorno tutti dovranno saltare la scogliera. E c’è questo amico corvo che inizia a fargli delle domande: ma sai nuotare?, ma ti piace l’acqua?. E ci sono anche momenti in cui il corvo lo porta a sperimentare e lui capisce che quello non è il suo elemento. Ma siccome è parte di un tutto e questo tutto è già programmato per andare in una direzione, non potrà fare altro che andarci anche lui. E io l’ho trovata una metafora perfetta per raccontare tutta una serie di condizioni di esseri umani che fanno questa fine, che vanno dalle più spietate sette sataniche a tutti gli episodi di abusi che avvengono ad esempio nella religione cattolica; fino alla storia di Scientology che è allucinante: ha molto di scientifico e poco di religioso, ma riesce ad agire sul soggetto facendolo sentire debole e allo stesso tempo responsabile, necessario. E siccome tutti vogliamo essere necessari, lasciare una traccia, ma non sempre ne siamo capaci, capita che ci si affidi a qualcun’altro, e questo qualcun’altro può essere la persona giusta o la persona sbagliata, e in questo caso può diventare molto pericoloso. E quindi è nato così, da un’indagine di come questi vari soggetti possano andare in caduta libera verso un certo tipo di fine, nonostante stiano cercando amore, corrispondenza, necessità».

Da qui quindi anche il personaggio di Corvo.
GL: «È un personaggio a cui tengo moltissimo perché credo molto al paganesimo, e la figura di Lucifero credo sia una figura salvifica. E credo che un certo tipo di esoterismo sia una filosofia sana: torna a un periodo molto più sano del nostro, precedente ai danni che ha fatto il cattolicesimo. Quindi Corvo mi è servito per fare una distinzione ben chiara tra finire in una setta che si appropria di un simbolo – Satana, Lucifero – senza neanche conoscerlo per fare cose atroci, rispetto invece a una filosofia più vitale…».

La stessa cui è nato il nazismo, però…
GL: «Certo, perché qualunque cosa può essere travisata, anche la filosofia cristiana è bellissima. Quindi abbiamo lavorato così».

Come ha proceduto per costruire il testo?
GL: «Un po’ ho seguito delle suggestioni che mi ha dato lei, un po’ mi sono documentata, e poi ho attinto ad episodi che ho visto, fortemente impregnati di manipolazione, che mi erano stati raccontati, di cui avevo sentito parlare.
Anche la storia delle sante martiri che vengono idealizzate perché hanno dato la vita, hanno sofferto per un’idea, è pazzesco, speculari alle morti sul rogo. Una parte cercava di andare verso l’alto, l’altra verso il basso. Ma la questione è sempre la stessa».

È stato difficile dar voce a parole così narrative?
GL: «Beh, posso dire che, avendo scritto tre pezzi effettivamente molto basati sul racconto, è stato bello vedere come Delia sia riuscita a dare corpo a tutte queste parole che erano narrazione non dialogo. Il salto tra testo letterario e teatro è labile e lei ci è riuscita».

Ha lavorato direttamente anche con le attrici?
GL: «Sì, c’è stato un laboratorio da cui sono venute fuori delle improvvisazioni sulle quali ho scritto. E poi ci sono state delle prove in cui ho lavorato adattando parte del testo. Il teatro non puoi scriverlo a casa, devi capire se il testo va oltre il palcoscenico o se si blocca, e poterlo sperimentare con le attrici era fondamentale, mi ha fatto capire quanti piani potesse avere un testo che poteva essere molto astratto e basta una regia oculata per renderlo concreto, è lì che diventa solo teatro e non è più solo parola. È stato un viaggio».

Sono tematiche molto nascoste nel quotidiano. Mi chiedevo in che modo mettendole in scena voleste toccare il pubblico.
DR: «Penso che nonostante il tema, l’ironia, il grottesco, sia comunque uno spettacolo delicato e questo mi porta a sperare che qualsiasi tipo di pubblico possa apprezzarlo e magari pensarci. Ognuno di noi ha vissuto forme di manipolazione, il pubblico non deve capire chissà cosa, ma identificarsi in alcune sfumature o personaggi».

Dove sperate di portarlo?
DR: «Speriamo abbia una vita lunga, non è sicuramente un lavoro che finisce qui. Che abbia una vita anche fuori da questo spazio. E che invece per questo spazio sia il primo di molti».