Ritratti d’autore

Originari di Montale (in provincia di Pistoia), e del Casentino (in provincia di Arezzo) Gli Omini sono, innanzi tutto, quattro amici – Francesco Rotelli, Luca Zacchini, Francesca Sarteanesi e Giulia Zacchini – che hanno cominciato a recitare perché avevano voglia di fare teatro.

Con misura, si sono «inventati di girare per le piccole città e chiedere ai passanti di fare due chiacchiere, specificando che quelle due chiacchiere sarebbe poi finite in uno spettacolo». Il loro stile, nel tempo, si è trasformato in un format collaudato, che parte però da «un’esigenza istintiva».

Esperienza dopo esperienza, i loro spettacoli hanno cominciato a girare in tutta Italia fino a imporsi per il loro successo sia tra il pubblico che tra gli operatori di settore – successo coronato, quest’anno, con il Premio Rete Critica 2015, che è stato consegnato loro a Milano, nella famosa notte degli Ubu.

Come sono stati concepiti Gli Omini?
Luca Zacchini: «Il progetto nasce tra il 2006 e il 2007 (quando eravamo venticinquenni o poco più) esclusivamente dal bisogno di fare teatro. Il succo era: “siamo dei ‘disgraziati’ che nessuno si fila. Come facciamo a portare il pubblico a vedere un nostro spettacolo, magari in un posto dove nemmeno esiste un teatro, ma dove ci sono persone potenzialmente interessate?”. A questo punto, ci siamo inventati di girare per le piccole città e chiedere ai passanti di fare due chiacchiere, specificando che quelle due chiacchiere sarebbe poi finite in uno spettacolo che si sarebbe tenuto di lì a una settimana in quello stesso luogo. Senza saperlo, avevamo trovato un metodo per incuriosire il pubblico più disparato».
Francesco Rotelli: «Per fare un esempio, il nostro primo spettacolo si è tenuto in un campeggio di Chiusi della Verna (in provincia di Arezzo). Un piccolo borgo, in cui su duemila abitanti, forse 200 hanno deciso di vedere la performance. Per quanto il nostro linguaggio e la nostra comicità potessero sembrare loro assurdi, il fatto di mettere in scena le parole stesse della gente, ha reso il tutto comprensibile, fruibile, condivisibile dai ventenni come dagli ottantenni. Di fronte a uno spettacolo insolito dal punto di vista formale, ossia senza trama, l’attenzione doveva rimanere alta, anche perché entravamo nel vivo dei problemi quotidiani».

Come si caratterizza il processo di scrittura e regia dei vostri spettacoli? È di tipo collettivo?
F.R: «Oggi la creazione può definirsi collettiva. Tuttavia, Giulia opera in modo più consistente a livello di scrittura e drammaturgia; mentre Luca, Francesca e io stiamo più sul campo, intervistando e fornendo poi a lei i dati, che riascolta e trascrive».
L.Z.: «L’ideazione degli spettacoli è fatta sempre a tavolino, e questo è il momento in cui tutti hanno voce in capitolo e contribuiscono alla realizzazione. Giulia continua poi il lavoro in maniera indipendente, perfezionando il canovaccio e rielaborando comunque e sempre le considerazioni fatte in precedenza da tutto il gruppo».

omini 1

Vi definireste più antropologi, sociologi o cantastorie?
Giulia Zacchini: «Una definizione vera e propria non esiste, anche perché dall’interno non ci preoccupiamo di etichettarci a priori, ma lavoriamo in maniera naturale, spontanea. Si potrebbe dire che siamo tutte e tre queste cose: un po’ cantastorie, un po’ antropologi, un po’ sociologi».
L.Z.: «La parte umanista, che è insita in noi, stiamo iniziando a osservarla solo adesso in maniera critica. All’inizio, quando abbiamo cominciato (come distaccamento di un gruppo di nove elementi), a muoverci è stata un’esigenza istintiva. Partire dalla gente e da un’osservazione del reale ci serviva essenzialmente a scopo espressivo. Dal punto di vista dei contenuti ci siamo occupati di ascoltare i bisogni, i problemi, le paure e i dubbi delle persone che ci stavano intorno e che erano anche i nostri – così da poterli trasferire sul palco».
F.R.: «Non a caso, uno dei nostri primissimi spettacoli si chiamava CRisiKO, una parodia del gioco da tavolo, nel quale noi, Omini, andavamo alla conquista della crisi esistenziale e del disagio. Questo molto prima che scoppiasse la crisi economica del 2008».

Dalla Famiglia Cupiello alla Famiglia Campione il passo potrebbe non essere tanto breve. Qual è stata la genesi del vostro spettacolo cult?
F.R.: «Tutto nasce dal progetto Tappa, che va avanti ormai da cinque anni. Partendo da un canovaccio, ci fermiamo una settimana in una frazione o un paese della provincia fiorentina, e svolgiamo il nostro lavoro d’indagine e inchiesta, per poi sviluppare uno spettacolo che nasca e muoia la sera stessa. La Famiglia Campione, al contrario, ha avuto un destino diverso. Partita come “tappa” e nata da un canovaccio (sapevamo già quanti sarebbero stati i personaggi in scena e che avremmo raccontato lo scontro generazionale), ha mostrato una solida ossatura che è stata riempita con le parole degli intervistati. Nel corso del tempo, però, il testo si è solidificato nella forma che portiamo in giro attualmente. Ogni personaggio è diventato la testimonianza di una tipologia incontrata nella realtà: dal depresso all’arrogante, fino alla madre di famiglia frustrata».

Venendo a Ci scusiamo per il disagio. La versione per il teatro appare modificata rispetto a quella estiva. Il motivo per cui avete reso lo spettacolo più cupo è di tipo funzionale?
L.Z: «In questo spettacolo, al contrario de La Famiglia Campione, non esisteva un canovaccio. La drammaturgia si è modellata sulla base delle interviste raccolte alla Stazione di Pistoia, dove abbiamo scoperto situazioni di disagio, ma anche la malinconia e il senso nastalgico delle persone che vi transitavano».
F.R.: «La nostra volontà è stata da subito quella di mettere in scena lo spettacolo in luoghi non teatrali – come è avvenuto per il debutto all’Area Rotabili Storici di Pistoia. Però, poi, ci è stato chiesto di farne anche una versione teatrale. A quel punto abbiamo dovuto confrontarci con una modalità meno spettacolare, dal punto di vista scenografico, concentrandoci maggiormente sulla recitazione e sulla drammaturgia. La scelta è stata quella di operare un’estrema sintesi del reale – servendoci unicamente di una panchina, un altoparlante e un mazzo di storie. Il nostro lavoro principale è stato quello di riuscire a vestire i panni delle persone incontrate, centrifugando il loro malessere e trasformandolo in puro suono. Ecco il perché di un cambio di rotta che ha portato a un risultato meno comico e più amaro. Il nostro intento, del resto, non è raccontare le persone in modo pietoso o per ridicolizzarle. E nemmeno quale mezzo di denuncia sociale. Bensì, semplicemente, per restituirle nella loro essenza».

Ci scusiamo per il disagio Gli Omini Associazione Teatrale Pistoiese (foto Gabriele Acerboni) (3)


Il prossimo step del Progetto T sarà uno spettacolo su un vagone della linea Porrettana. Come nasce il progetto e quali problematiche state incontrando nella sua realizzazione?

Francesca Sarteanesi: «L’Associazione Teatrale Pistoiese ci ha dato questo input. Dal punto di vista amministrativo e politico, Toscana ed Emilia-Romagna stavano pensando a una rivalutazione della linea ferroviaria Porrettana, che collega Pistoia a Porretta. Noi abbiamo presentato il Progetto T – come Treno, Teatro, Transappenninica, Tre (ossia gli anni di durata del progetto). Bisogna dire che se non ci fosse stata L’ATP a interpellare Trenitalia e le Ferrovie Italiane, non avremmo mai potuto realizzare uno spettacolo del genere, estrapolato da un mese di interviste alla Stazione di Pistoia. Ogni singola fotografia scattata durante il periodo d’indagine è stata revisionata da un apposito ufficio di Roma, e alcune sono state perfino scartate (come, ad esempio, le immagini del piccione, di un senzatetto, di persone di colore). Adesso stiamo attendendo risposta per inziare a rendere concreto tutto ciò che ancora è scritto sulla carta e che sarà il lavoro del secondo anno del progetto T. Il debutto sarà previsto per Luglio 2016».

Se Gli Omini fossero un piatto da ordinare al ristorante, quale sarebbero?
G.Z: «Sicuramente uno street food, un piatto di frattaglie ricoperte di salsa all’aglio!»

Foto di Gabriele Acerboni