Ritratti d’autore

Giuseppe Pambieri (Varese, 18 novembre 1944) è un attore, regista teatrale e doppiatore italiano. Formatosi presso la Scuola del Piccolo Teatro di Milano, nel corso della sua cinquantennale carriera ha collaborato a teatro con registi del calibro di Giorgio Strehler, Franco Zeffirelli, Luca Ronconi, Giorgio Albertazzi, Walter Pagliaro, Renato Giordano e Giancarlo Sepe. Sposato con la collega Lia Tanzi e padre dell’attrice Micol Pambieri, nel corso degli anni ha preso parte a molti film e film per la TV, fra cui Il deserto dei tartari e il celebre sceneggiato Le Sorelle Materassi.

Fondamentale all’inizio della sua carriera fu la collaborazione con Giorgio Strehler. Quali furono i primi spettacoli in cui Strehler la diresse?
Giuseppe Pambieri: «Per formarmi come attore ho frequentato la scuola del Piccolo di Milano, ma Strehler ovviamente lì non si presentava mai; però coinvolse anche noi studenti ne Il gioco dei potenti, dall’Enrico VI di Shakespeare, diviso in due serate – una da quattro e una da sei ore. Per noi della scuola del Piccolo fu uno spettacolo straordinario che ci insegnò molto di più di quello che ci poteva dare ogni lezione o prova a scuola; avevamo poche battute, sostanzialmente servivano a mettere in scena le continue morti dei soldati nella Guerra delle Due Rose, eravamo bravissimi a morire! Lo spettacolo però era troppo lungo per il pubblico e coinvolgeva settanta attori, fu un insuccesso clamoroso, il Piccolo quasi rischiò il fallimento. Ricordo bene che avevano preso degli attori anche dall’Accademia di Roma, fra cui Lino Capolicchio, e siccome venivano da fuori Strehler aveva dato loro delle parti più importanti. Noi del Piccolo avemmo la nostra vendetta, dopo il debutto Strehler scomparve e uno degli aiuto registi venne con una sua lettera dove ordinava di tagliare ampie sezioni dello spettacolo e Capolicchio si ritrovò con la sua parte ridotta brutalmente; in seguito divenni molto amico con lui. Sempre nell’ambito del Piccolo partecipai anche a un Arlecchino servitore dei due padroni diretto da Strehler, che ci fece fare, nel ’66, una tournée fra Italia, Spagna, Germania e Inghilterra. Fu veramente un’esperienza coinvolgente ed entusiasmante, anche se lì il mio ruolo era marginale! Anzi, in effetti di ruoli ne avevo due: per il grosso dello spettacolo interpretavo un servetto, ma introducevo anche lo spettacolo nel personaggio di un vecchio facchino, che dava il segnale all’orchestrina per iniziare a suonare. Anche se lì ancora rivestivo un ruolo marginale, pure quest’Arlecchino fu un’importante esperienza. Strehler era un regista che capiva l’attore e lo amava sul palcoscenico; fuori no, era molto timido e chiuso e voleva solo la sua cerchia di amici intimi a tavola, ma sul palcoscenico era strepitoso».

Il suo primo importante ruolo da protagonista è arrivato nel 1967, con una messa in scena de Le Mosche di Sartre. Chi era il regista? Cosa ricorda del suo debutto?
GP: «Le mosche fu sicuramente il primo grosso spettacolo della mia carriera in cui vestivo i panni del protagonista, dopo alcune esperienze minori alla Ribalta di Bologna. Nelle Mosche interpretavo Oreste ed ero diretto da Franco Enriquez: fu una bellissima esperienza per me, anche perché avevo al mio fianco Valeria Moriconi, allora in grande spolvero, nel ruolo di Elettra, e Renzo Montagnani che fece un Giove strepitoso. Il ruolo mi fece vincere il premio Noce d’Oro per il miglior giovane attore dell’anno, un premio fondato da Eugenio Tacchini, giornalista della Gazzetta di Varese. Quello di Sartre era un testo magnifico che vorrei riprendere, è ancora molto attuale».

Nel 1972 tornò a collaborare con Strehler in un Re Lear. Che ruolo aveva nello spettacolo?
GP: «Facevo Edmund, il cattivo. Ricordo bene che durante le prove Strehler ti eccitava con una forza d’animo unica. Quando vedeva che entravi nel personaggio come voleva lui impazziva! E, per il suo metodo di lavoro, prima di darti le sue indicazioni ti faceva lavorare liberamente, per vedere dove andavi e poi applicare le sue idee sul personaggio ma su quello che l’attore aveva già nelle sue corde. Questa era una grande intuizione che poi non ho trovato in altri registi che pensano di poter appiccicare un’intonazione senza conoscere le tue vere potenzialità».

Nel 1976 ha preso parte in un ruolo di supporto al celebre Il deserto dei tartari di Zurlini, un’autentica Odissea produttiva girata fra l’Iran e Cinecittà. Cosa ricorda delle riprese del film?
GP: «Il deserto dei tartari fu un’altra esperienza molto formativa, con un palmares di attori davvero irripetibile, capeggiato da Gassman, Perrin, Trintignant. Inizialmente mi era stato assegnato un altro ruolo ma poi Zurlini me ne dovette dare uno più piccolo spiegandomi che, siccome era una coproduzione fra Italia e Francia, dovevano per forza attribuirlo a un attore francese; quindi purtroppo la mia parte fu girata solo a Cinecittà, e non sono andato in Iran come speravo».

Lei ha recitato due volte sul palcoscenico del Teatro Grande di Siracusa, nelle tragedie greche prodotte dall’INDA. Che ricordi ha della prima volta su quel palco?
GP: «La prima volta a Siracusa fu con l’Ippolito di Euripide, a 25 anni, diretto sempre da Enriquez. Per complimentarsi molti mi hanno detto che la mia voce raggiungeva gli ultimi spalti, dove solo la voce di Annibale Ninchi arrivava lì. Entravo montando un cavallo bianco – la scena mostrava Ippolito tornare dalla caccia con i suoi compagni – e alla prova generale, già con il pubblico, questo cavallo bianco mentre stavamo entrando in scena si è impennato ed essendo io senza sella e senza redini perché il mio personaggio doveva cavalcarlo a pelo mi sono trovato improvvisamente a terra. Fortuna volle che il cavallo non mi calpestò, quindi mi alzai, un po’ claudicante, ed entrai lo stesso in scena seguito dai miei amici. Questo inizio fu drammatico ma poi raccolsi un successo enorme. All’interno del cast dello spettacolo c’era anche Nando Gazzolo, allora un grande divo televisivo, e siccome fuori dagli ingressi si vendevano le nostre foto si faceva a gara a chi ne faceva vendere di più. Quell’Ippolito andò benissimo, recitato sul palco dell’INDA era come un grande rito. Io sono sempre passato dal classico al teatro borghese, al comico, al drammatico. Mi è sempre piaciuto l’eclettismo, per me è fondamentale».

Per un attore quanto è importante il confronto con i classici del teatro greco? Ci sono alcuni aspetti dei testi che, se rispettati alla lettera come accade negli spettacoli dell’INDA, risultano ostici?
GP: «Dipende da come il regista vede lo spettacolo, da come lo adatta, da come viene realizzata la traduzione, che può essere molto elastica o molto letterale. Sicuramente le tragedie greche sono dei classici per questo, perché parlano di situazioni che sono paragonabili a quelle di oggi. Per i greci in fondo il teatro era un’esperienza immersiva, le tragedie duravano da mattina a sera, era un rituale fondamentale. Un attore di un certo livello deve conoscere la cultura classica. Seneca, per esempio, ha ispirato Shakespeare. C’è un legame, man mano che si procede nel tempo, fra questi grandi autori. Molière ha preso dai classici, Goldoni ha preso dai classici. Lo stesso testo di Le mosche di Sartre parte dal mito di Oreste ed Elettra. Purtroppo adesso siamo tutti fermi a causa del Coronavirus».

Lei è stato diretto da Albertazzi in Harem, nel ruolo di Federico II di Svevia. Albertazzi come dirigeva i colleghi attori?
GP: «Lo spettacolo nasceva da un testo di Alberto Bassetti. Io andai da Albertazzi in un posto dove stava facendo uno stage, studiammo il testo insieme e lui con me ha cambiato molte cose e aggiunto diversi personaggi: Albertazzi e io abbiamo lavorato molto insieme in questo senso, cosa che mi ha fatto molto piacere. Harem era uno spettacolo curioso e anche strano, se vogliamo, che includeva anche un nudo integrale. Lo spettacolo sostanzialmente immaginava Federico II in uno dei suoi harem con quattro donne che rappresentavano i mondi di allora: l’ebrea, la romana, la tedesca e la saracena. Le prime battute dello spettacolo nascono da un episodio simpatico: io un giorno mi misi a declamare alcune parole in greco che nessuno capiva; Albertazzi disse che erano bellissime ma neanche lui sapeva cosa fossero: alla fine raccontai che erano dei versi di Alceo che il mio professore di greco, quando frequentavo il Collegio San Carlo, aveva detto a me e ai miei compagni di classe di imparare a memoria perché ci sarebbero venuti in mente nei momenti difficili della nostra vita. La cosa piacque talmente ad Albertazzi che decise di farmi aprire lo spettacolo con quei versi. Harem non è uno degli spettacoli fondamentali della mia carriera, ma fu sicuramente affascinante».

Nel 2008 ha preso parte a un adattamento teatrale di Todo Modo di Sciascia. Cambia qualcosa, dal suo punto di vista di attore, recitare in uno spettacolo tratto da un romanzo e non da una pièce teatrale?
GP: «Mi piace essere eclettico, ci tengo a dirlo, e lavorare su Sciascia mi ha dato moltissimo e mi è piaciuto molto. Il mio personaggio, Don Giovanni, è un prete corrotto e maniaco, molto particolare, quasi un Anticristo; Paolo Ferrari faceva il narratore, quello che entra in questo posto e lo racconta. Mettemmo in scena Todo Modo anche al Quirino a Roma. Lo spettacolo piaceva molto soprattutto ai giovani, purtroppo non so perché ma non fu replicato l’anno successivo».

Lei ha recitato in numerosi spettacoli tratti da Shakespeare. Cosa richiede a un attore un testo shakespeariano? Cosa cambia dal Shakespeare tragico del Re Lear al Shakespeare comico del Sogno di una notte di mezza estate?
GP: «Shakespeare sì, l’ho affrontato diverse volte, dal Gioco dei potenti in poi. Dopo Strehler ho rimesso in scena il Re Lear con la regia di Marinelli al Teatro Ghione. Sul versante dello Shakespeare commediografo abbiamo girato per due anni con la Commedia degli errori, in cui recitava anche mia figlia Micol. In Shakespeare anche nelle grandi tragedie c’è sempre la risata in agguato: la vita è comicità e tragicità fuse insieme, anche nei gesti più terribili c’è qualcosa di ironico, questo è uno dei grandi insegnamenti di Shakespeare di cui si potrebbe parlare per ore».

Nella sua carriera di attore di teatro, quali sono i ruoli e i registi a cui è rimasto più affezionato?
GP: «Strehler, innanzitutto, com’è inevitabile che sia, e ovviamente anche Enriquez, quelli furono sicuramente anni formativi e importantissimi. Accanto a loro, non posso non ricordare Enrico Maria Salerno, con la sua regia nel 1970 ho interpretato Giochi da ragazzi, che è rimasto nella storia del teatro italiano per essere stato l’unico thriller prodotto da Garinei e Giovannini. La storia di Giochi da ragazzi era ambientata infatti in un collegio americano in stile gotico, un’ambientazione molto cupa dove avvenivano dei delitti misteriosi, si scatenava improvvisamente un’ondata di violenza che non si capiva da dove proveniva, e a poco a poco si scopre che uno dei professori era una specie di demone incarnato. Andò in scena al Quirino, con Paolo Stoppa e lo stesso Enrico Maria Salerno che facevano i ruoli principali, e io il co-protagonista accanto a loro. Anche su quello spettacolo c’è un aneddoto divertente da raccontare. Al provino andai e Salerno mi chiese se avessi preparato qualcosa; io gli dissi che provenivo dal successo de Le mosche e dall’Ippolito a Siracusa e gli riferii le critiche, ma non volevo presentare nessun monologo anche se quelle due parti me le ricordavo ancora a menadito. Si creò un certo silenzio e mi chiesero di uscire un attimo; si consultarono a porte chiuse e poi venne da me Giovannini che mi disse, nel suo romanesco, “Aò bambino, ma chi ti credi di essere, qualcosa saprai a memoria”. Io però continuavo a esitare, perché altri provini fatti sulla base di un testo a memoria erano stati umilianti e avevano rappresentato per me esperienze tremende, al che Giovannini mi disse “che ti devo dire, vedremo che succede”. Due giorni dopo mi chiamò: “Aò hai fatto colpo, Salerno ti vuole vedere”. Salerno si presentò “Mi sei piaciuto molto al provino, anch’io sono come te”. Mi fece leggere due righe del testo, e mi diede la parte. Io quando racconto questo aneddoto ai ragazzi che cercano di intraprendere la carriera di attori dico di stare attenti: a me è andata bene, ma il mondo dei provini è molto cambiato e fare una cosa del genere adesso è molto più rischioso. Dopo Salerno è arrivato Zeffirelli, La città morta di D’Annunzio, con Sarah Ferrati: Zeffirelli era un altro grande regista molto bravo a dirigere gli attori, ingiustamente bistrattato in Italia. Poi naturalmente non posso non citare Ronconi, con cui ho fatto Venezia Salva, da Simone Weil, a Torino. Per me Strehler e Ronconi sono stati i due più grandi registi teatrali italiani della seconda metà del Novecento, anche se erano diversissimi: Strehler faceva vedere la poesia teatrale in scena, Ronconi era un grandissimo sperimentatore di metodi di lavoro sempre nuovi. Venezia Salva non è considerato un capolavoro di Ronconi, ma era comunque importante, e il mio personaggio, Renaut, era una specie di rivoluzionario frustrato che insegna a Jaffier, Massimo Popolizio, come conquistare Venezia con la forza, e avevo un monologo di ben 16 minuti. Io, della mia generazione, sono uno dei pochi, lo dico con orgoglio, che ha lavorato con tutti questi registi, i più grossi del loro tempo».

Il suo ultimo ruolo cinematografico è stato in Cosa sarà di Francesco Bruni, uscito nelle sale pochi giorni prima della chiusura e adesso disponibile sulle principali piattaforme. Qual è il suo ruolo nel film?
GP: «Il mio ruolo è quello del papà di Kim Rossi Stuart. È un bel ruolo, un uomo fatuo e superficiale, innamorato di sé stesso, che però darà al personaggio la dritta che nessuno sapeva, indirizzandolo a quella che sarà il deus ex machina del film. Mi è piaciuto molto tornare al cinema con un regista così interessante come Bruni, un regista-non-regista perché sul set ti lascia l’impressione di stare tra amici anche se tiene la disciplina in modo totale grazie al carisma che ha. È molto bravo anche a scrivere, dice cose semplici, al limite della banalità se vogliamo, ma lo fa in modo da renderle importantissime e mai scontate. Purtroppo il giorno dopo che siamo sfilati sul red carpet sono stati chiusi i cinema, doveva uscire in 300 sale, adesso è possibile vederlo sulle piattaforme online».

Si ringrazia il produttore e attore Claudio Alfonsi per aver permesso questa intervista