L’anelito sbagliato

india-argentina-roma-80x80Debutto in prima nazionale per l’Hedda Gabler di Ostermeir al Romaeuropa 2013, il capolavoro di Henrik Ibsen sul drammatico esito di ogni patologico desiderio di riscatto.

L’allestimento di Thomas Ostermeier, Leone d’oro alla carriera lo scorso anno a Venezia, si presenta con alte credenziali dal punto di vista scenografico e registico, “forte” anche dell’ormai rodato connubio con la prestigiosa compagnia della Schaubühne, di cui è direttore artistico dal 1999.
Grazie all’utilizzo di espedienti tanto efficaci quanto essenziali, l’impatto scenico è, nella sua limpidezza, magnetico. Un marchio di fabbrica, quello della “complessa semplicità” (vedi la recensione di Ein Volksfeing, sempre di Ibsen), che in questa occasione si concretizza in due elementi che citiamo perché particolarmente vistosi, ma che non sono certamente gli unici in tal senso, ovvero il binomio piattaforma girevole (sulla quale la scenografia ci viene mostrata da diverse “angolature”, spezzando ogni possibile e illusoria “unità di luogo”) e specchi collocati sopra la scena. Espedienti, questi, che svelano come quel contesto esistenziale di “monotonia” in cui agiscono gli interpreti sia in verità caratterizzato da una radicale frammentarietà. Una soluzione come si diceva semplice, ma che in maniera implacabile mostra cosa si nasconda dietro quella superficiale “normalità” borghese, che poi costituisce il bersaglio critico privilegiato tanto della poetica di Ostermeier, quanto di quella di Ibsen.

Una mancanza di senso “compiuto”, infatti, avvolge ognuno dei personaggi, a cominciare proprio dalla protagonista. Hedda non è, come nel testo originario, una giovane ragazza che ha sbagliato per “inesperienza”, ma una quarantenne matura che Ostermeier ci presenta egoista e annoiata, come modello ideale di donna che – incapace di escogitare alternative e gratificanti strategie di esistenza – si trova ad avere come unico scopo la fuga da quella mediocrità (borghese) nella quale, però, lei stessa ha “voluto” vivere.
Se, infatti, la condizione descritta da Ibsen “sollevava” in una certa misura le donne dalla totale responsabilità della propria infelicità (riconoscendo nelle dinamiche sociali e culturali un fattore determinante), Ostermeier in questo non concede sconti: Hedda, con atti concreti, pur dicendo di odiare la propria infelicità (attraverso la ricerca di gesti “eroici”), finisce inesorabilmente per scontrarsi contro le proprie scelte. Scelte, tra l’altro, determinate a loro volta da quell’attaccamento alla “roba”, dal matrimonio di interesse con un uomo che considera “fallito”, dall’amante “anticonformista” che però lei rifugge vigliaccamente, fino all’amicizia con una donna “debole” su cui sfogare il proprio senso del sadico.
È un destino, quello di Hedda, al quale lei stessa sembra andare incontro con piena volontà, anche se non con altrettanta consapevolezza. Un epilogo particolarmente drammatico, rappresentato dalla tragicomica scena finale, perché di fatto “avverrà” e “lascerà” che tutto prosegua come se nulla fosse successo.
L’opportunismo fa dunque di Hedda una reazionaria a pieno titolo, l’ennesima Emma Bovary senza identità (anzi, con il timore di assumere quella che sentirebbe come autentica: in questo è possibile trovare un eco della radicale denuncia ibseniana), schiacciata dal fardello della propria patologica insoddisfazione («quello in cui sono bravissima è annoiarmi»), che però rimane incagliata nel pantano di una vita che non sa come e in che direzione modificarsi.

Il ritmo della narrazione è ben dosato, i tempi dei dialoghi e degli “incastri” attorali giostrati dall’esperto regista tedesco permettono alle oltre due ore di rappresentazione di non soffrire eccessivamente sopra/sottotitoli più volte lacunosi. Gli attori della Schaubühne, man mano che l’incedere narrativo diventa più complesso e sfaccettato, esibiscono con grande naturalezza il proprio talento nel saper mostrare le diverse sfumature dei rispettivi personaggi, mantenendone sempre e comunque coerenza e omogeneità.

Tuttavia, nonostante l’adeguatezza delle sovrastrutture scenografiche, proprio la nettezza con cui intellettualisticamente Ostermeier costruisce i propri riferimenti agli anni ’80 (l’età dei protagonisti, i desideri condivisi di una vita “tranquilla”, l’essere testardamente casalinga e con la volontà di accasarsi di Hedda) inficiano in un certo grado la possibilità di cogliere empaticamente quella peculiare “visionarietà” con cui l’autore norvegese, in maniera inarrivabile (e forse ancora inarrivata), riusciva a mostrare senza particolari filtri e artifizi “il marcio dentro l’individuo e dentro la società del suo tempo, portando avanti un’amara critica al pensiero e alla morale falsamente perbenista della società borghese e di buona facciata della Norvegia – ma in generale di tutta l’Europa” (Gli Spettri di Carolina Ciccarelli). Un limite, forse stucchevole da far notare, ma che, pur senza mettere in discussione la qualità artistica dell’allestimento, finisce paradossalmente per fargli avere ancora “cose da raccontare”, ma solo per chi, direttamente “coinvolto”, può ascoltare.

Lo spettacolo è andato in scena:
all’interno di Romeuropa Festival 2013
Teatro Argentina

largo di Torre Argentina, 52 – Roma
fino a domenica 27 ottobre
orari: ore 21.00, sabato ore 19.00, domenica ore 17.00
(durata 2 ore e un quarto circa)

PRIMA NAZIONALE
Hedda Gabler
di Henrik Ibsen
regia Thomas Ostermeier
con Annedore Bauer, Lars Eidinger, Jörg Hartmann, Katharina Schüttler, Kay Bartholomäus Schulze, Lore Stefanek
traduzione in tedesco Hinrich Schmidt-­Henkel
scene Jan Pappelbaum
costumi Nina Wetzel
musiche originali Malte Beckenbach
drammaturgia Marius von Mayenburg
video Sébastien Dupouey
luci Erich Schneider
spettacolo in tedesco con sotto e sopratitoli in italiano