Ritratti d’autori

Sono ormai trascorsi oltre 30 anni dal quel 24 marzo (1976) che diede inizio alla dittatura di Videla, eppure in America Latina sembra tornare qualcosa di inquietante, se il presidente della più grande democrazia del Sud America, nonché quarta nel Mondo, il brasiliano Bolsonaro, riporta con orgoglio sulla porta del proprio ufficio parlamentare un cartello con su scritto «Chi cerca le ossa è un cane» (citazione dell’amico Sebastian Rodriguez De Moura, detto Curiò e noto anche come Mario Luchinni, che da maggiore dell’esercito tra il 1964 e il 1985 fu al comando delle operazioni di repressione e uccisione degli oppositori alla dittatura militare). Tenere vivo il ricordo non come mero esercizio nostalgico o di retorica, ma «per fare carico di quella memoria» e «mettere in comune le diverse generazioni»: diamo la parola a Horacio Czertok, che con Teatro Nucleo porta avanti la nobile missione di un teatro che, mettendosene al servizio, intende «scovare gli spettatori nelle loro piazze, nei cortili dei sobborghi, dei caseggiati dei quartieri dormitorio».

Leggendo la presentazione del progetto multidisciplinare (poesia, diritto, fotografia, teatro, ecc) Post-MEMORIA desaparec(s)ida, ci ha molto colpito la sua definizione in termini di «passaggio della memoria alla post memoria». Può spiegarci meglio cosa intende dire e, nello specifico, quali siano il contributo e il ruolo svolto da Teatro Nucleo?
Horacio Czertok: «A oltre quarant’anni del colpo di stato civico militare che in Argentina distrusse la democrazia, uccise oltre trentamila persone facendone sparire i corpi e sequestrò oltre un migliaio di bambini per farli crescere in famiglie selezionate, i superstiti ci interroghiamo su come fare memoria di questi fatti. Noi vecchi ci avviamo al tramonto, i nostri figli e altri giovani interessati si dovranno fare carico di quella memoria: come si realizza questo passaggio? A questo passaggio è stato dato il nome “post-memoria”.
La recrudescenza del fascismo-razzismo mostra che non siamo riusciti a costruire una memoria adeguata, oppure gli strumenti utilizzati non sono stati abbastanza efficaci? A ogni commemorazione, nelle ricorrenze, nei giorni dedicati, facciamo retorica e ci sentiamo la coscienza a posto; ma si rischia che siano azioni dedicate a chi è già convinto. Non riusciamo a raggiungere coloro che dovrebbero essere raggiunti, oppure non li raggiungiamo con l’energia la chiarezza gli strumenti adeguati per costruire con loro la giusta comunicazione. L’agone è soprattutto culturale. Tocca a noi operatori dell’arte e della cultura farcene carico, trovare i processi adeguati. Noi facciamo la nostra parte attraverso l’agire quotidiano, la progettualità di un teatro che si rivolge a interlocutori non-addetti, non professionisti ossia al vasto pubblico abbandonato dai programmatori professionisti».

Negli scorsi mesi ha presentato in una lunga tournée argentina, lo spettacolo Contra Gigantes. Come ha trovato il suo paese e i suoi abitanti?
HC: «Bisogna chiarire: vivo, lavoro e voto in Italia da decenni, perciò sarebbe più corretto parlare dei miei Paesi. Mancavo da alcuni anni. Argentina è un paese ricchissimo nel quale una relativamente grande minoranza vive negli agi, e la maggioranza soffre. Fa male vedere soffrire la fame e i disagi in un Paese sufficientemente ricco da sfamare cento volte quella popolazione. Tenuto in quello stato da chi non pensa minimamente di cedere il vero potere. La forbice tra ricchi-ricchissimi e poveri-poverissimi si è ulteriormente allargata. Un laboratorio politico che dovremmo osservare per capire meglio i processi in atto da noi. Rimane attiva una vivissima vita culturale, una vita teatrale intensa e polimorfa».

Qual è stata la reazione del pubblico?
HC: «Ho potuto fare Contra Gigantes nella mia lingua madre e questo mi ha molto confortato, in uno spettacolo che fa uso intenso della lingua. Con gli spettatori si è creata sempre una comunicazione molto intensa».

Il Don Chisciotte della Mancia è sovente ricordato per l’episodio dei mulini a vento e la concezione di un protagonista follemente e romanticamente incapace di accettare la realtà, ma la locura di cui parla Cervantes è, in verità, ben altro e ben più. Il Don è un uomo che vive coraggiosamente il proprio tempo e ne subisce/combatte (anti)eroicamente le contraddizioni e, nel suo Contra Gigantes, lei ne restituisce con estrema suggestione il rapporto che lo lega alla realtà non nei termini di negazione, ma di cura e attenzione. Volgendo lo sguardo alla contemporaneità, anche Cervantes può dunque essere specchio del «passaggio della memoria alla post memoria»?
HC: «A dire il vero non lo avevo pensato così ma sono lieto che la domanda lo restituisca: forse non il romanzo scritto che rimane tale e quale bensì la lettura che ne possiamo fare alla luce della ricerca sull’autore e sul suo tempo e circostanza . Lo studio strutturale del romanzo ci restituisce dati concreti: nei 40 conflitti che affronta il Don nelle due parti e dal momento in cui si fa nominare cavaliere, risulta vincitore morale o materiale nella metà. Quindi dove sta il glorioso perdente che ci consegna la critica letteraria? Non è un vincente ma non è nemmeno un perdente: proprio in questo preciso equilibrio sta la consistenza del romanzo . Quindi non sussistono gli elementi per considerare romantico il romanzo. Anzi è un romanzo crudele, quasi ad ogni capitolo il Don risulta bastonato e ferito nel corpo: alla fine infatti ne muore. Il corpo del Don e il suo sacrificio è un tema ricco».

Magari facendo riferimento a un particolare aneddoto, ce ne racconta la genesi, che, ricordiamo, trae a sua volta origine da QUIJOTE!, suo celebre adattamento per spazi aperti dell’omonimo capolavoro di Miguel de Cervantes?
HC: «Dopo vent’anni di girare con quello spettacolo, un complesso allestimento per spazi aperti che abbiamo dato in piazze e luoghi di centinaia di città, ci siamo fermati. Ma il Don – che avevo avuto l’onore di vivere nella finzione- è cominciato ad apparirmi in sogno: voleva tornare alla scena. Poi successe che Routledge, la casa editrice che pubblicava la versione inglese del mio Teatro in esilio mi chiese un piccolo pezzo teatrale per la presentazione del libro a Londra presso la Calder Bookshop. Ecco l’occasione. Così ho dovuto riprendere la drammaturgia e lo studio, e ne è venuto un monologo a più voci ancora in lavorazione, perché il romanzo è inesauribile e continuo a trovare gemme da riportare. Al momento i Giganti sono otto, ma in crescita. Coltivo il sospetto che nel romanzo ci siano messaggi in codice, cautela necessaria per qualcuno che scriveva in tempi di assolutismo monarchico e cattolico e faceva della critica sociale e politica neanche tanto di nascosto a dire il vero. Critica della giustizia nel capitolo sui galeotti. Della condizione della donna nel capitolo dedicato a Marcella e Crisostomo. Della schiavizzazione dei contadini a causa dell’imposizione dei mulini proprietà capitalistica primaria sostituendo pratiche comunitarie per il trattamento del grano: altro che gigante immaginario, il mulino a vento».

Più in generale, crede che oggi il teatro supplisca alle mancanze dell’informazione e possa richiamare la politica alle sue responsabilità? E che a teatro si possa realizzare un rito autenticamente laico, quindi non dogmatico, capace di muove e coinvolgere attivamente la partecipazione pubblica?
HC: «Non penso che sia missione del teatro informare. Il teatro è comunicazione, da comunicare, vocabolo che in latino da “mettere in comune” e quindi mette attori e spettatori a lavorare su una cosa comune. Come lo facciano, ecco lo stile e la poetica: puoi anche immaginare di fare informazione o contro-informazione, ma quello che accade nei fatti è comunicazione. Peraltro non credo di essere più informato o di avere idee più importanti sulla vita che i miei spettatori: anzi.
Le persone cercano i riti di appartenenza e se non li trovano li creano: un concerto di Vasco lo è e non per volontà sua. Come i cori e le coreografie nelle curve. La dimensione rituale è insita nel fatto teatrale, non è che tu possa scegliere, vi si instaura.
Sostengo da cinquant’anni, tanti sono i miei anni da teatrante, che per rifondare il teatro bisogna andare fuori dai teatri, bisogna andare a scovare gli spettatori nelle loro piazze, nei cortili dei sobborghi, dei caseggiati dei quartieri dormitorio: ti stanno aspettando. Così da recuperare il suo ruolo primigenio nato ad Atene. Bisogna uscire dai circuiti sclerotizzati dall’intellettualità autoreferenziale che si è installata nel sistema teatrale e vi cova i suoi riti incurante della propria solitudine, anzi facendone un vanto».

Teatro è anche, se non soprattutto, lavoro: quanto ritiene prossimo o già compiuto il pericolo di un industria culturale che, avendo imposto la realizzazione di prodotti culturali sotto forma di merce di scambio, sterilizza ogni possibile rivoluzione dell’arte e attraverso l’arte?
HC: «Il teatro è un relitto fuori tempo nella civiltà capitalistica dell’economia di scala, completamente al di fuori dei riti del consumo. È un “prodotto” atipico che esiste solamente quando viene realizzato e finisce lì, comunque lo si faccia. Non si può accumulare ne tesaurizzare. Per realizzarlo a pieno occorre generare i gruppi che possano tenerlo in vita, fuori dalle istituzioni nelle quali a dettare legge è il custode, il quale decide a che ora si chiude, incurante della vita del processo creativo. Le istituzioni sono fabbriche regolate dalla legge del mercato, pubblico o privato. Gli attori vi sono solamente ospiti a tempo e mal tollerati. Ma il teatro è fatto dagli attori: perciò devono auto organizzarsi e quindi appropriarsi del mezzo di produzione-lavoro. Peraltro il teatro a cui tutti continuiamo ad ispirarci comunque la pensiamo, è nato dai gruppi e nei gruppi: il teatro d’arte di Stanislavskij lo era e così Meyerch’old e Vachtangov, i Copiaus di Copeau e più recentemente Kantor, il Living.
Fare teatro è attività semplice, occorrono solamente persone motivate –attori e spettatori- un luogo, una candela se fa buio. Si può eventualmente pagare in specie: un pollo, delle verdure.
Sta ai teatranti decidere se vogliono essere schiavi di un’industria che non li considera minimamente per quello che sono, oppure fruire della libertà necessaria al fatto teatrale.
Lavoro in carcere da molti anni: il teatro può essere libero e garantire libertà creativa anche in prigione».

Come proseguirà l’attività di Teatro Nucleo per il resto della stagione?
HC: «Laboratorio, produzione, la tournée di Domino in Europa (Plovdiv in Bulgaria, Danimarca, Germania, diverse città in Italia) e quella di Contra Gigantes. E tanto altro che si può vedere sul sito www.teatronucleo.org».