L’associazione culturale L’ippocrifo presenta al Teatro Stanze Segrete di Roma fino al 27 Febbraio, I Dublinesi di Joyce (i vivi e i morti), per la regia di Riccardo Cavallo.

In occasione del 70esimo anniversario della morte del grande scrittore irlandese, il Teatro Stanze Segrete rende omaggio alla sua struggente poetica portando in scena l’opera forse più emblematica dell’intera produzione letteraria di Joyce, quei Dublinesi a cui dedicò le sue energie migliori assieme al monumentale ed “incompiuto” Ulisse. In questo sforzo di rielaborazione critica e mnemonica di un’intera stagione, vi è tutta la passione di Joyce dei dettagli, dei sogni interrotti, delle visioni amplificate fino a svanire nella nebbia o nelle strade affumicate della sua Dublino, di voci soffocate dal vento, del “non detto”, o del dire disdicendo, del parlare tacendo, del comunicare incomunicabile, che caratterizzano i suoi personaggi.

Un impegno che emerge evidente in questa messa in scena, attraverso la rivisitazione teatrale di un del verbo joyciano, che da sempre è riuscito a dare carne e sangue alle sue fantasie, a interrogare una realtà quotidiana di cui era protagonista attivo.

Lo spettacolo riesce nella complessa impresa di rendere bene questa auto-analisi critica di un’intera società, rigida e austera come quella irlandese, attaccata alle sue tradizioni e gelosa del proprio Io, del proprio personale essere al mondo. A partire da un soggetto “statico” come una riunione familiare nel giorno del Ringraziamento, il dinamismo “confessionale” della narrazione trabocca senza paura, fino a captare l’attenzione dello spettatore in quello stesso turbinio esistenziale di dubbi mai risolti, di contraddizioni insanabili, di rimpianti e rimorsi, di cui la nostra vita è fatta e attraverso cui deve saper edificarsi, per raggiungere l’agognato equilibrio.

Ed è la ricerca paziente, che non disdegna qualche momento di parossistica disperazione, di quella cinica atarassia, dell’assenza totale di qualsiasi passione (a cui però inevitabilmente si incappa senza rimedio), che permea l’azione inabile dei personaggi, che si muovono su una scena totalmente dispiegata all’osservazione, anch’essa attiva e onnipresente dello spettatore, come fossero fantasmi, entità senza storia, che vivono qui e ora il loro essere passati da sempre, la loro eterna attualità, complici di quella polvere da cui siamo venuti e in cui ritorneremo. La polvere che tutto ricopre, come nelle vecchie case di campagna dimenticate, è a mio avviso, il filo concettuale aperto e chiuso nell’involucro coerente e dialettico dello spettacolo. Una polvere che sottomette tutto e che dà senso a tutto, che permette alle cose esposte alla corrosione e alle intemperie del tempo, di cristallizzarsi nell’attesa del giorno del giudizio, dell’inevitabile resurrezione.

Ciò viene amplificato dagli spazi intimi del teatro, in cui un sapiente e malizioso gioco di specchi, che riflette senza sbavature la nostra coscienza riflettente, e tende con ciò ad annullarne l’effetto critico (proiettandoci inconsciamente nell’azione scenica come se ne fossimo i veri e unici protagonisti), riqualifica gli interstizi concettuali dell’opera di Joyce, rivitalizzando paradossalmente quella fissità cronologica, quella morte “vitale” in cui i suoi cari dublinesi sono immersi, trasfigurandoli in figure quanto mai mitologiche e inavvicinabili.
Un’asciutta ed essenziale grammatica scenica, la parsimonia – anch’essa letteraria – delle luci, l’attenzione della regia verso le pieghe chiaroscurali dei personaggi – l’enigma che coinvolge tutti, l’ansia cronica nel sentirsi ingabbiato da un destino a cui si vorrebbe sfuggire ma invano, il rinviarsi frustrante nel diverso-sconosciuto – permette all’intera compagnia di dare seguito all’impegno di Joyce di celebrare l’incelebrabile, dare voce all’oscena incertezza, al pantano in cui l’umanità si trova immersa: quel correre dietro a un fato a cui dobbiamo tener fede ciecamente – anche se non ha senso – rinunciando alle aspirazioni e ambizioni per poter far parte di un gioco crudele e cinico, e maledire ciò che di più caro abbiamo al mondo per non averlo lasciato essere ciò che voleva essere.

In Joyce, ancora prima del suo allievo Beckett, vi è tutta la pazzia indecifrabile e misteriosa dell’attesa, di un significato senza significante, di un soggetto senza oggetto, di un mondo senza traccia di verità, senza possibile felicità.

Lo spettacolo continua:
Teatro Stanze Segrete

via della Penitenza, 3 – Roma
fino a a domenica 27 febbraio ore 21.00
consigliata prenotazione telefonica: 06-6872690 o 338-9246033 (posti 30)

I Dublinesi di Joyce (i vivi e i morti)
con Claudia Balboni (Gretta), Sebastiano Colla (Freddy), Nicola D’Eramo (D’Arcy), Martino Duane (Gabriel), Cristina Noci (Kate), Giulia Adami (Lily) e Francesca De Berardis (Mary Jane)
costumi Claudia Balboni
assistente regista Annalisa Biancofiore
aiuto regia Elisa Pavolini
sartoria Bice Minori
calzature Pompei
scenotecnica Stefano Massai
fonica e luci Daniele Patriarca
ufficio stampa Cinzia D’Angelo