De l’Enfer où mon coeur se plaît

PerformazioniPerformazioni Festival colpisce il cuore di Bologna con le parole/pietre di Sergio Blanco, tra autofinzione e archetipo

Scava nell’animo e nella lingua, Sergio Blanco, poeta e drammaturgo, regista di se stesso, alter ego dell’accademico (che, in ogni caso, è). Scava con la passione dell’erudito dannato, del mistico che pecca d’orgoglio per brama di sapere, e così facendo, con la pazienza certosina di chi adora la parola e la sua musicalità intrinseca – da Jean-Marie Straub a Stephane Mallarmé – trova vene d’oro dalle quali estrae rocce, che ripulisce con cura amorevole, trasformandole in luccicanti pepite che ricompongono, nella loro disposizione geometricamente ineccepibile, l’equilibrio di un karesansui.
Ascoltare, a occhi chiusi, il fluire dell’uruguayo è un placer in sé. Il ritmo che infonde il respiro tocca le corde armoniche dello spettatore/uditore, trasformando la singola sillaba in nota e la parola in frase musicale che, a sua volta, va a comporre un motivo che conduce dolcemente alla putrefazione – perché nessuno è “un delicato e irripetibile fiocco di neve. Tu sei la stessa materia organica deperibile di chiunque altro e noi tutti siamo parte dello stesso cumulo in decomposizione” (Chuck Palahniuk).
Blanco discorre di violenza e, come ogni artista che rifletta il contenitore nel contenuto, scegliendo la forma più adatta e modellandola sul suo significato e viceversa – come hanno fatto sublimemente, sovvertendo l’ordine che da Dio/logos discende al maschio/padre e da quest’ultimo alla logica/sintattica, due donne geniali quali Gertrude Stein e Virginia Woolf – violenta la lingua per regalare poesia; e al contempo, grazie alla bellezza-verità sublima l’orrore – ossia il brutto, cardine estetico antitetico e dicotomico, eppure indissolubilmente legato al bello.

Questo il segno. Il suo significato è ancora più spiazzante nella sua insostenibile leggerezza: la violenza è propriamente, intrinsecamente, ontologicamente umana. E qui, l’inserimento dell’analisi di Enrico Piergiacomi – durante l’incontro dell’artista col pubblico, al termine della conferenza spettacolo – risulta illuminante. Se il Dio monoteistico fosse perfetto, onnisciente e onnipotente, perché avrebbe bisogno dell’uomo e della donna o, comunque, dell’altro da sé? La necessità dell’atto di Dio che violenta se stesso per creare la dualità intrinseca a qualsiasi forma non conchiusa, bensì dialogante e, quindi, vitale è ragione/matrice della nascita dell’uomo e della donna.
I ventisei capitoli – con epilogo – di questo libro dove la banalità del male si lega indissolubilmente con la sua organizzazione burocratica (dai campi di sterminio nazi-fascisti – mai dimenticare la Risiera di San Sabba – al Mare Nostrum trasformato in cimitero coi migranti pastura per i pesci) spaziano dall’universo/mondo che ci circonda al microcosmo intimo dell’artista, in equilibrio tra disvelamento e autofinzione. Emblematico come l’avvertenza di Lautréamont  per i Canti di Maldoror, che le “esalazioni mortali di questo libro gli [al lettore] impregneranno l’anima come l’acqua lo zucchero” si specchi – con la precisione dell’arte/vita – nella febbre che arde Blanco quando s’intossica con le parole del Marchese De Sade de Le 120 giornate di Sodoma. Perché se è vero che, come affermava Artaud (altro fantasma che ha avvolto i presenti grazie al rimando di Piergiacomi al teatro della crudeltà): “Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno”, è altrettanto vero che ognuno di noi ha sperimentato e goduto della sua propria saison en enfer – nelle favelas brasiliane o in un hotel a cinque stelle.
Nelle enumerazioni che scandiscono l’opera complessiva quanto il gesto – da retore per la conferenza, da attore per l’autofinzione spettacolare – nessun termine è mai slegato, posticcio o avulso dal contesto, bensì intimamente legato a un ritmo che crea climax e anticlimax, ma anche a un fil rouge che congiunge passato e presente senza soluzione di continuità. E se la vittima sacrificale ha sempre caratteristiche precise come i tempi del suo martirio (benché cambino le forme, dalla ghigliottina rivoluzionaria all’autodafé dell’Inquisizione spagnola, con conseguente rogo, fino alla castrazione chimica della nostra società sessuofobica), il bairro dove perdersi non potrà che chiamarsi San Sebastiano, Abe Sada non potrà che inglobare in sé il corpo, la carne, il sesso di Kichi-san (ed Ecco l’Impero dei Sensi potrebbe dirsi, non a caso, il film più romantico della storia del cinema).

Dal segno al significato e da quest’ultimo alla precisione delle architetture che compongono e reggono la scrittura e la struttura drammaturgica di Blanco. Come ha notato Angelo Savelli (traduttore del drammaturgo, presente in platea e responsabile della versione italiana di Tebas Land, che sarà prodotta da Pupi e Fresedde, e messa in scena al Teatro di Rifredi con Ciro Masella nei panni dello stesso Blanco), per quanto perfette siano queste architetture, colpisce la leggerezza con le quali l’uruguayo le scardina volontariamente, fin dalle fondamenta, per introdurre il caos. Quel caos indispensabile alla vita, aggiungeremmo noi, come lo fu il brodo prebiotico per l’evoluzione della specie, a livello biologico; e, traslando sul piano simbolico, indispensabile alla creazione artistica perché “bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante” (Nietzsche docet).

Lo spettacolo è andato in scena nell’ambito di Performazioni 2019
venerdì 31 maggio, ore 20.30
LABOratorio San Filippo Neri
via Manzoni, 5 – Bologna

I fiori del male o la celebrazione della violenza
conferenza spettacolo di e con Sergio Blanco

a seguire incontro con il pubblico a cura di Enrico Piergiacomi

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