Ubu allo streben

india-argentina-roma-80x80Al Teatro India di Roma, è protagonista Roberto Latini con la sua pluripremiata e osannata versione de I giganti della montagna.

È forse il testo di più complessa e ardua rappresentazione, l’ultimo di Luigi Pirandello, drammaturgo tra i più importanti del XX secolo e, molto probabilmente, di ogni epoca, la cui poetica rappresenta una sublime testimonianza di come l’innovazione abbia potuto (e possa ancora) ergersi a rinnovato classicismo e istituire un equilibrio tra forma e contenuto inedito perché autenticamente consegnato a una soggettività scevra di autoreferenzialità fine a se stessa.

Capace di straordinarie tangenze con le più audaci e innovative ricerche filosofiche (la frantumazione freudiana dell’io e gli archetipi junghiani dell’individuazione, il vitalismo creativo di Bergson e l’innaturalità degli ideali di Nietzsche) e scientifiche dell’ultimo secolo (il relativismo di Einstein che, dopo aver visto a Berlino Sei personaggi in cerca d’autore, gli disse: «Noi siamo parenti!»), la produzione di Pirandello aprì la stagione – di cui questo Giganti fa parte – del cosiddetto Teatro dei miti, ossia di allestimenti caratterizzati dal tentativo di dare espressione finalmente positiva e non più relativa al precedente disorientamento assoluto culminato nel Teatro nel teatro.

Una soluzione non borghese di ritorno alle origini che, ne I giganti della montagna, si accompagna a un ulteriore motivo di (estremo) interesse: il suo status di essere incompiuto, ossia l’ossimorica esistenza di qualcosa che, pur essendo concretamente materiale, risulta impossibile da esperire in veste definitiva poiché l’essenza del suo stesso contenuto ne eccede la forma.

È allora una struttura narrativa aperta e rizomatica, senza ingresso o via d’uscita obbligata, quella che la precoce morte di Pirandello lasciò in eredità ai posteri; una gerarchia acefala di personaggi orizzontali identificati negli Scalognati (sfortunati, reietti della società) e nel gruppo di teatranti alla ricerca di un luogo ove rappresentare La (pirandelliana) favola del figlio cambiato. Artisti capitanati da Ilse, Contessa con una pena da scontare (la morte dell’amante poeta/autore della Favola, dunque Pirandello medesimo), ma anche dominati dalla determinante latenza scenica dei Giganti che danno il titolo all’opera – entità che «vivono di vita naturale […] di cui nello stato normale noi uomini non possiamo aver percezione, ma solo per difetto nostro, dei cinque nostri limitatissimi sensi».

Dunque Giganti/ombre di fantasia, irrealtà ideali capaci di abitare l’individuo, di condizionarlo o soggiogarlo; voci dall’aldiqua – di cui l’uomo, se comune, potrà essere ignaro ospitante o, se poeta, consapevole custode – segnanti un solco radicale tra l’artista/demiurgo e tutti gli altri singoli che, contrariamente ai primi, saranno limitati e passivi nella percezione dello spazio esterno e nell’espressione di quello interno.

Una presa di posizione aristocratica e decadente, quella di Pirandello, che si strutturò come critica totale all’allora esistente (dal pubblico non in grado di comprendere, sentire e apprezzare, alle maestranze di settore, in particolare il capocomicato novecentesco, alle imperanti avanguardie progressiste) e si propose come vero e proprio ammonimento di responsabilità e discriminazione tra chi (il regista) crea mondi, perché «fuori di questi limiti, per grazia di Dio […] basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé», chi (l’attore) li subisce partecipandovi da dentro e chi, infine, (il pubblico) vede «la vita dentro i limiti del naturale e del possibile» e, di conseguenza, «non comprenderà mai nulla».

Rispetto alle immense potenzialità del testo, Latini decide di «rimanere il più possibile nell’indefinito», dunque di restare nel «tempo e luogo, indeterminati: al limite, fra la favola e la realtà» richiesti esplicitamente dagli appunti di regia, allestendo una scenografia preziosa, onirica e potentissima nel rappresentare la visionarietà dei quadri plastici e le fotografie di estrema suggestione ed efficacia, dal tridimensionale labirinto di spighe – deliziosa metafora della fertilità della madre terra, sovrastato da un penzolante lampadario d’antan – al sostanziale vuoto del finale, valorizzata anche dalla presenza coreografica dello stesso Latini. All’interno dell’assordante (co)protagonismo sonoro di Gianluca Misiti, il performer e regista romano accoglie «il movimento interno al testo» per «portarlo sul ciglio di un finale sospeso tra il senso e l’impossibilità della sua rappresentazione», agendo con frenetico delirio anche quando seduto o cerca di moltiplicare con lo strumento vocale le caratterizzazioni sempre in eccesso dei molti personaggi interpretati.

L’obiettivo dichiarato è pertanto di «immaginare tutta l’immaginazione che posso», facendo delle «parole […] il personaggio […] scelto», ma, nonostante i tecnicismi da grande produzione, il risultato che appare è un’opera controversa, pienamente lodevole solo per la grande fisicità e per l’energia attoriale impiegata per eseguire alla perfezione i numerosi e complicati cambi di scena e costume, oltre che per il sopracitato impatto visivo.

All’interno di un ambiente alterato in maniera un po’ stucchevole da nebbia e bolle di sapone, disturbato nella comprensione da sonorità elettroniche incessanti e funzionali al ritmo, ma liriche solo nel finale (Una furtiva lagrima) perché spesso di mero riempimento, a lasciare ben più d’una perplessità è stata la scelta di fondo di Latini: il voler decostruire la drammaturgia pirandelliana in e con una drammaturgia vocale. Una scelta infelice, che purtroppo paga il dazio di una clamorosa monotonia interpretativa e la mancanza di reali variazioni tonali (per nulla compensate dalle distorsioni e dalle contraffazioni microfonate) e che – restituendo una complessiva sensazione di improvvisata inconsistenza – oltre a rimandare l’intendimento della parola alla conoscenza preventiva dell’opera originaria, non è sembrata in grado di dare espressività alle continue sovrapposizioni di voci (sì incalzanti e vibranti, ma pesantemente omogenee e confuse) o di donare senso ai continui simbolismi, i quali, quando non criptici o banali, dalla posa del Cristo nudo alla deformata maschera dello Zanni e alla copertura del viso con una calza velata, sono caduti nel didascalico, come nel caso del richiamo all’immaginazione posto sul telo trasparente tra palco e platea.

Una rappresentazione declinata, anzi piegata, su uno sterile avanguardismo, che se, per un verso si offre ideologicamente elitario (scelta legittima, ma, personalmente, non condivisibile), eccelso nell’aspetto atmosferico ed estetico (complice anche le physique du role del protagonista e un sapiente uso delle luci) e debolissimo sul piano emotivo per l’incapacità di evocare forme di compartecipazione culturale o sentimentale, per l’altro si mostra privo dell’adeguato supporto in termini di originalità, nonostante la bella intuizione del legare la connessione tra poesia e teatro alla paura, così annunciando il tema – potenzialmente audace e necessario, di fatto abbozzato tra le pieghe di un intrinseco autocompiacimento – di una riflessione sul futuro della sperimentazione.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro India

Lungotevere Vittorio Gassman 1, Roma
dal 17 al 20 febbraio ore 21.00, dal 21 al 28 febbraio ore 19.00
lunedì riposo

I giganti della montagna
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
video Barbara Weigel
elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini
assistenti alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu
direzione tecnica Max Mugnai
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri
foto Simone Cecchetti
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti . Fondazione Orizzonti d’Arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione
durata 100 minuti più intervallo (I atto: 60’ / intervallo / II atto: 40’)