Come eravamo

Metà degli anni Settanta, paesino pugliese, quattro ragazzini in bicicletta: all’Elfo Puccini di Milano rivivono i ricordi di un’Italia da polaroid.

Nell’intimità della Sala Bausch, Fabrizio Saccomanno in pantaloni e girocollo bianchi, seduto su una sedia, con uno sfondo alle spalle e un palco ricavato con un semplice foglio di plastica – anch’essi bianchi – sembra quasi un angelo, un ricordo di un passato perduto, un soffio nel vento che riporta di storie vissute da un altro Paese (in maiuscolo come nazione, in minuscolo come assembramento di case, viuzze, corpi, tragicommedie di varia umanità che scorrono tra le pareti intonacate di bianco, il colore tipico – insieme al rossiccio del terreno – della piana pugliese).

La vicenda raccontata, in un dialetto italianizzato e scandito dalla gestualità e dalla mimica dell’attore, è quella di un giorno agostano della metà degli anni 70: si respira la calura del sole torrido del mezzogiorno, l’arsura del terriccio schizzato dalle ruote di biciclette e motorini, la pienezza matura dei frutti tra gli alberi, l’oppressione di quel lenzuolo bianco che stende il sole su interi paesi quando brucia la pelle e strizza gli occhi in due fessure, sottili come gli spiragli fra le imposte delle case sigillate.

Si respira quell’impasto di linguaggio infantile che ha un universo proprio per descrivere se stesso e il mondo, incomprensibile, degli adulti; lo sforzo di tradurre in termini italiani espressioni gergali che affondano le loro radici in usi e costumi atavici – “parata” è molto più di agghindata, ben vestita e truccata e pettinata: è la madonna stessa che scende in terra e si disvela in tutta la sua bellezza, nel volto, nel corpo, nella generosità di una donna.

Si respira passato, come ricordo individuale di un’infanzia perduta – epifania dei sensi e dei sentimenti – e collettivo, di un’intera generazione – i quarantenni di oggi, gli eterni ragazzi, i disoccupati cronici, i massimamente flessibili, mobile-dipendenti, che d’improvviso si scoprono avere avuto un’infanzia altra, intessuta di frammenti da museo archeologico: il garelli, la tv in bianco e nero, gli incontri al bar, il flipper, mamma Rai, le guerriglie di quartiere o di cortile, godendo di una libertà come nessun ragazzo di oggi può nemmeno immaginare.
IANCU, un paese vuol dire è tutto questo: un monologo di 70 minuti – a chiusura della rassegna Puglia in scena – che ripercorre le storie di un intero paese del “profondo sud” – come si diceva allora – ma anche vicende molto intime, un intrigo di sentimenti, paure, speranze, ipocrisie e i primi turbamenti del cuore, che coinvolge e stupisce: così lontano, eppure così vicino.

Per la rassegna Puglia in scena
Lo spettacolo continua:
Elfo Puccini – Sala Bausch
corso Buenos Aires 33 – Milano
fino a domenica 13 novembre
orari: feriali ore 20.00 – domenica ore 15.00
IANCU, un paese vuol dire
progetto Fabrizio Saccomanno
testo Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno
regia Salvatore Tramacere
con Fabrizio Saccomanno
scenografia Lucio Diana
foto Lucia Baldini
grazie a Giulio Petruzzi e alla comunità di Tuglie
produzione Cantieri Teatrali Koreja