Ordinarie storie di follia

Un incerto intreccio tra storia e follia è protagonista al D.O.I.T Festival con Il canto della Rosa Bianca. Studenti contro Hitler e Noi che vi scaviam la fossa.

La storia. Il canto della Rosa Bianca. Studenti contro Hitler di Maurizio Donadoni è uno spettacolo di genere documentaristico, il cui oggetto d’indagine è rappresentato dalle vicende di uno dei rari movimenti di resistenza democratica e non violenta sorti durante il regime hitleriano, la Rosa Bianca. Nato a Monaco di Baviera nel 1942 e composto principalmente da studenti universitari (alcuni dei quali avevano prestato servizio militare durante il conflitto), il gruppo svolse la propria attività con la pubblicazione di (soli) sei opuscoli, il cui contenuto incitava il popolo tedesco «al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti, [nonché, ndr] al rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista», prima di venire chiuso nel 1943 con la condanna a morte dei suoi principali esponenti. Condanna avvenuta più per il valore simbolico della propaganda di «idee disfattiste», che per l’effettiva efficacia di un’azione rimasta praticamente isolata e ininfluente.

Dunque, dopo Sic transit gloria mundi, sul palco dell’Ar.Ma Teatro va in scena un’altra drammaturgia plasmata sulla ricerca storica, questa volta di Indole Teatro, giovane compagnia prodotta da Quasi Anonima Produzioni, con il prestigioso sostegno della Fondazione INDA. Una scenografia di sole sedie, sette interpreti e una lunga esposizione verbale caratterizzano Il canto della Rosa Bianca. Studenti contro Hitler, spettacolo concepito su una netta dialettica tra due parti, con la prima – di ricostruzione biografica della figura di Hitler e dell’ascesa del nazismo – propedeutica alla seconda declinata sull’attività della Rosa Bianca.

E se in quest’ultima, caratterizzata da un certo realismo attorale e dalla ringkomposition sull’incipit «c’era una volta nel regno del sonno un gruppo di amici che un giorno si risvegliarono e, dobbiamo fare qualcosa, dissero», si palesa la valenza civile della rappresentazione, è nella prima, giocata tra il sarcastico e il grottesco, che si condensano vizi e virtù dell’allestimento. De Il canto della Rosa Bianca. Studenti contro Hitler, infatti, convincono – e molto – sia la spersonalizzazione dei ruoli in una vestizione total black, sia – e soprattutto – la relativa individuazione dei personaggi attraverso un piccolo dettaglio assunto a turno dagli attori (un papillon o i celebri baffetti), un espediente semplice ma ben in grado di restituire il tipico e glaciale processo di disumanizzazione perpetuato dai nazisti e descritto, per esempio, da Primo Levi in Se questo è un uomo.

Tuttavia, a margine di questa potente intuizione, a pesare con significativa gravità, soprattutto per le conseguenze culturali di un teatro che vuole definirsi civile, è l’assenza di un decisivo dato storiografico nella ricostruzione dalla prima parte, la cui notevole durata ne avrebbe pure permesso la facile citazione. A mancare è il rimando alle determinanti responsabilità di Usa, Gran Bretagna e Francia per l’affermazione del partito nazista in Germania, la cui lucida e scientifica pianificazione dello sterminio meriterebbe, finalmente e una volta per tutte, ben altra spiegazione rispetto a quella che, deviando dalla storia alla follia, emerge da Il canto della Rosa Bianca. Studenti contro Hitler, ossia l’implicito e fuorviante riferimento allo status mentale dei suoi esecutori. Tutt’altro che un dettaglio, purtroppo, vista l’ulteriore miopia mostrata da quelle stesse nazioni (in particolare europee) alla fine del secondo conflitto mondiale nel sistemare la questione mediorientale tra il neonato stato di Israele e il defenestrato stato palestinese sulla base di interessi economici e geopolitici personali, così creando le condizioni di cui oggi abbiamo il pieno e drammatico manifestarsi e rispetto alle quali si continua a non mostrare alcuna assunzione di responsabilità e l’auspicato cambiamento di rotta.

Focalizzato dichiaratamente sulla follia è invece il secondo spettacolo, Noi che vi scaviam la fossa della compagnia La Crisalyde, premio miglior regia all’ultimo Roma Fringe Festival, scritto e diretto da Vania Castelfranchi. Germe oscuro che devia dalla corretta via, patologia che adombra la purezza fisiologica della natura umana, risposta funzionale a un contesto disfunzionale (o viceversa), semplice alterità: intorno alla follia e al suo non banale rapporto con ciò che, per contrarietà, si definisce normalità si giocano alcune tra le più fertili e produttive pagine della riflessione filosofica e dell’intenzione artistica dell’età contemporanea, le prime tracciandone la genealogia con la ricostruzione delle condizioni ecologiche di appartenenza e delle motivazioni culturali di riferimento, le seconde orientando il processo creativo in relazione a un radicale ribaltamento delle tradizionali convenzioni accademiche.

Se in ambito strettamente artistico va alle avanguardie il merito di aver affermato il grande rifiuto della norma(lità), è Michel Foucault il vate riconosciuto di una rivoluzionata attitudine all’approccio metodologico e all’impostazione teoretica della follia: interrogandosi sulle modalità con cui essa (la follia) venne concepita dal sapere e gestita dalla società, spostando l’attenzione dalla ricerca di una sua astratta definizione all’analisi del ruolo disciplinare assunto dall’età classica a quella contemporanea, Foucault individuò nel complicato rapporto tra storia e follia le coordinate privilegiate di un’indagine più autentica della realtà umana, di un sentiero aperto su ciò che non ammette generalizzazioni perché intimamente personale e non delegabile, l’esistenza. Proprio il tema della follia come verità denudata del corpo venne utlizzato da Peter Weiss per chiudere il progetto di una trilogia drammatica sul modello della Divina Commedia dantesca – dall’Inferno (sull’impunità degli uomini responsabili delle atrocità di guerra) all’Istruttoria (sul parziale risarcimento dei sopravvissuti ai campi di sterminio) – con Marat-Sade, una sorta di purgatorio in cui realizzare le premesse della catarsi.

Il drammaturgo tedesco ipotizzava la teatralizzazione della vita e della morte di Marat da parte dei malati mentali di Charenton, il manicomio nel quale il marchese De Sade venne internato dal 1801  al 1814, e tra queste due figure, che simbolicamente rappresentano i poli opposti del popolo rivoluzionario e dell’individualismo assoluto, Vania Castelfranchi pone il solo banditore Jean Roux al posto del vasto parterre ipotizzato da Weiss; un fool con funzione di mediazione tra i personaggi e di tramite per il pubblico, il quale, a sua volta, dopo esser stato invitato a varcare la porta che rappresenta il principale fulcro metascenografico dell’allestimento, viene concepito come «composto da malati mentali appartenenti a categorie psico-patologiche fornite all’ingresso».

I dialoghi, centrati semplicisticamente sulle tematica su cosa sia normalità e su chi siano i veri malati, si strutturano nelle esplicite intenzioni di Castelfranchi su quattro «riferimenti registici»: il «Manifesto per un Nuovo Teatro di Pier Paolo Pasolini […] di un arte capace di criticare e mettere in discussione le certezze della società borghese», il «Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud […]  per la sporcizia della parola, degli abiti, della scenografia», il «Living Theatre [con gli, ndr] spettatori […] chiamati a rispondere, a reagire, a scegliere ogni volta il finale, a cercare il modo di riaprire la porta che si è chiusa alle loro spalle» e infine «la ricerca antropologica del Teatro Ygramul e con il metodo EsoTeatrale […] la maschera è la società e il volto che cela si mostra attraverso la pazzia».

La Compagnia La Crisalyde, con questo adattamento, raccoglie solo in parte l’attualità della sfida di Weiss di utilizzare il teatro per dar voce alla maschera dissacrante della pazzia e, al netto dei bei trasvestimenti e del convincente finale strutturato sulla scelta attiva del pubblico, la cui uscita dalla sala/manicomio viene subordinata all’individuazione di uno spettatore quale simbolico capro espiatorio da lasciare dentro, Noi che vi scaviam la fossa mostra un’evidente e inopportuna eccedenza formale.

Ricercando il disorientamento del pubblico attraverso lo svolgimento su più piani di una doppia rappresentazione automimetica e metateatrale, l’una allegoria dell’altra, finalizzata a «mettere il pubblico in una situazione di angoscia e rottura con la propria zona di confort», la creatura di Castelfranchi palesa il fiato corto su tre dei quattro principali riferimenti sopra citati, dalla pedante restituzione attorale, all’affettata ricerca del grottesco e del perturbante, fino alla fiacca interazione con il pubblico.

In assenza di una pungente maieutica ironia, lontano dall’autentica crudeltà del linguaggio artaudiano, incapace di utilizzare in maniera seducente il gesto e il movimento, il suono e la parola, Noi che vi scaviam la fossa sembra allora lontano dal provocare l’auspicata funzione catartica dell’angoscia umana, situandosi paradossalmente in un clima di pacifico divertissement.

Gli spettacoli sono andati in scena:
Ar.ma Teatro
via Ruggero di Lauria, 22 Roma
21/22 e 23/24 marzo 2017
ore 21:00

Il canto della Rosa Bianca. Studenti contro Hitler
di Maurizio Donadoni
con Gianluca Ariemma, Antonio Bandiera, Nicasio Catanese, Federica Cavallaro, Eleonora De Luca, Gianni Giuga, Laura Ingiulla, Vincenzo Paterna, Maddalena Serratore, Claudia Zàppia
con il sostegno della Fondazione INDA
Quasi Anonima Produzioni | Indole Teatro | SICILIA

Noi che vi scaviam la fossa
regia e drammaturgia Vania Castelfranchi
con Luca Lollobrigida, Mirco Orciatici, Matteo Paino
Premio miglior regia Roma Fringe Festival 2016
produzione Compagnia La Crisalyde | LAZIO