Un uomo non è il suo errore

All’interno della rassegna D.O.I.T. Festival al Teatro Due, i detenuti del circondario di Rebibbia portano in scena Il carcere è stato inventato per i poveri.

Sul palco non vi sono attori professionisti che si personificano in detenuti, tantomeno vengono riportati cliché sulla condizione nelle carceri da chi quel luogo con le sue dinamiche li conosce solo attraverso sitcom o sentiti dire. In scena viene esibito il lavoro del CAPSA Service, l’associazione culturale che da anni tiene laboratori teatrali all’interno della casa di reclusione di Rebibbia.

Gli attori sono gli stessi detenuti, l’impatto è quindi diverso, l’emozionalità anche. Si avverte tutta la verità e il peso delle storie, ma soprattutto una grande lezione, quella della resistenza oltre la frustrazione. È un microcosmo difficile quello del carcere, dove tutto viene amplificato, soprattutto il dolore e la sensazione di annientamento e fallimento. È necessario avere equilibrio, l’equilibrio conta più della forza ed è molto più difficile da mantenere «per chi non cammina su un marciapiede largo ma su di una corda tesa».

Il teatro si mostra, ancora una volta, stimolo sociale, e lo spettacolo – pur senza una lunga preparazione – è l’evidente certificazione di quanto i ragazzi del carcere avessero da dire. Il tutto viene espresso con semplicità, con intelligenza, senza aggressioni verbali scontate che potevano essere facilmente, troppo facilmente, criticate come faziose e qualunquiste. Hanno giocato con forme di vicinanza, abbattendo divari e spingendo alla comprensione. Piccoli siparietti sulla vita in carcere, metafore di vita partendo da una semplice tazzina di caffè, ragionamenti sull’attesa, l’elemento più duro da affrontare dentro perché pone al cospetto del rimpianto e della frustrazione, del pentimento e del vacillante gioco della psiche, della capacità di rifarsi e rinnovarsi, e dell mantenere comunque una coscienza critica. Avere anche e soprattutto in carcere, delle scaramanzie, dei riti propiziatori che sono frutto di una speranza condensata che deve continuamente reinventarsi per sopravvivere. «Non si scrive il proprio nome in carcere se non vuoi tornarci». «Ogni respiro ha senso».

E ancora testi scritti fra le sbarre e letti, dediche a familiari, profondità di chi si scava dentro. Un pensiero ai compagni del penitenziario che non hanno potuto partecipare per restrittive scelte burocratiche.
Sul palcoscenico sfumano quelle che molti potrebbero vedere come differenze in altri ambiti, dimenticando che quelli sono uomini con storie e vissuti, non schedari senza una vita passata o futura. In carcere rischi di perderli, l’identità e la tua personalità, gli slanci e le idee, ti senti inutile e si avverte il peso di esser trattati con superficiale arroganza.

«Noi non siamo utili alla società secondo loro, sempre colpevoli». In una parola marchiati. Non si è voluto però creare uno spettacolo di giustificazionismo, come potrebbe sembrare. Ogni interprete sale sul palco conscio e consapevole che il carcere «noi lo meritiamo, è vero, ma non per questo dobbiamo sopportare pene non corrette, eccessive, senza la possibilità di riscatto».

Qual è il confine fra l’uomo che commette un reato e chi lo punisce mostrando non giustizia ma abuso di potere? E, poi, l’ingiustizia viene annunciata già dal titolo: Il carcere è stato inventato per i poveri. «Ricchi in carcere non ce ne stanno». Un testo vero, che non può che lasciare amarezza accanto ad aria di spontaneità. A volte, infatti, in teatro si respira la bravura, la capacità, l’impegno, la tecnica, ma molto spesso si perde il contatto umano e rimane solo un’impronta dell’autenticità. Per il resto molta forma, estetica, Arte con l’iniziale maiuiscola, quella dei professionisti, su cui solo i professionisti possono autorevolmente dibattere.

Il loro non esserlo, attori professionisti, ha permesso di ricordare quanta importanza rivesta il teatro a scopo socio-culturale, quanta importanza possa avere un tessuto attivo e dinamico come un laboratorio teatrale. È la base di un riscatto, di una riappropriazione, di un avvicinamento a forme alte di sentire, nel senso greco della parola, aisthesis (percezione e, quindi, sentire). È un nobilitare l’animo. Un palcoscenico che unisce e aggrega al Teatro Due, senza banalità, senza dimenticare che un uomo non è il suo errore.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro due Roma

Teatro stabile d’essai
Vicolo dei Due Macelli, 37
23 maggio

Il carcere è stato inventato per i poveri
testo e cura della compagnia Instabile Assai
regia Daria Veronese
con i detenuti della casa di reclusione di Rebibbia
con Roberto Antonini, Irene Cantarella, Ubaldo Ciafrei, Rossella Cuniato, Rocco Duca, Gianni Giuseppe, Paolo Mastrorosato, Alessio Patacchiola, Barbara Santoni, Daniele Sghirrapi, Massimiliano Taddeini, Antonio Turco, Sandra Vitolo
scene, luci e fonica Massimo Sugoni e Alessandro Pezza