Braibanti: chi era costui?

La XVIII edizione della rassegna di teatro omosessuale Garofano verde si conclude con un testo che racconta dell’unico cittadino italiano processato per plagio, recuperando una pagina rimossa della storia repubblicana nella quale l’omosessualità viene trattata come vizio e curata con il carcere o l’elettroshock in manicomio.

Aldo Braibanti, ex partigiano, ex militante del PCI, mirmecologo (studioso della vita delle formiche), scrittore e artista, autore teatrale e cine-televisivo, viene processato per plagio – «sottoporre una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione» – dietro denuncia di Ippolito Sanfratello, che lo accusa di aver sedotto e allontanato dalla famiglia il figlio ventitreenne Giovanni, col quale Braibanti convive in una pensione di Roma e che ha conosciuto quattro anni prima. Aldo viene arrestato. Giovanni è sequestrato dalla famiglia e condotto in un manicomio, dove è sottoposto a diciannove elettroshock e a undici coma insulinici. Il giovane viene rilasciato quindici mesi dopo a condizione di tornare nell’alveo familiare e di rinunciare a leggere libri scritti dopo il 1870. Al processo, Giovanni nega di essere stato plagiato, ma l’accusa usa il suo diniego come riprova del crimine, mentre Piercarlo Toscani, un altro ragazzo col quale l’imputato ha avuto una precedente relazione, ammette il plagio.

Aldo Braibanti viene condannato a nove anni di carcere.

Quanto riportiamo non è un racconto di fantasia, ma un fatto realmente accaduto, nel 1968, in Italia.

Massimiliano Palmese ne ha ricavato Il caso Braibanti, una pièce per due attori nella quale è la vittima stessa del processo – interpretata da Fabio Bussotti – a parlane, a processo avvenuto, guardando ai fatti col senno di poi, in una scansione narrativa che alterna momenti del processo alla vita precedente dell’imputato. Bussotti è un vero mattatore e riesce a infondere al suo personaggio una forza civile degna del miglior teatro di denuncia, ma il ruolo più impegnativo è quello di Mauro Conte che, oltre a Giovanni Sanfratello, interpreta molti degli altri personaggi, dai genitori del giovane agli avvocati, agli psicologici e preti coinvolti nel processo, potendo contare solo sulla voce e sul linguaggio del corpo per cambiare ruolo. Giuseppe Amorini, infatti, portando alle estreme conseguenze il teatro di narrazione secondo gli stilemi scelti da Palmese, privilegia la parola a discapito della scrittura scenica, allestendo una sorta di oratorio dove Bussotti e Conte recitano privi di qualunque ausilio scenografico, indossando una sobria camicia bianca su pantalone grigio. A fare da quinte sonore e a sottolineare alcuni passaggi della pièce, che si basa anche sulla trascrizione di alcune deposizioni e requisitorie del processo, il bravo Mauro Verrone, che esegue musiche originali suonando il sax e il clarino.

Palmese sviluppa lo spettacolo partendo dal punto di vista privato di Braibanti – la sua vita, le emozioni sue (comprese le lettere che scrive alla madre) e di Giovanni – aggiungendo, man mano che lo spettacolo procede, anche delle considerazioni politiche e sociali. Tramite Braibanti, Palmese sottolinea come il processo abbia avuto una matrice di destra, individuabile nella famiglia di Sanfratello, nei giudici che hanno celebrato il processo e negli psichiatri che hanno ricoverato Giovanni, tutti di quell’area politica. Mostra anche come il processo sia stato contro l’omosessualità, sottolineando gli aggettivi coi quali viene definita in tribunale e sui quotidiani. Riporta infine le reazioni di sdegno di alcuni intellettuali, da Elsa Morante a Umberto Eco, da Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, gli unici a intervenire in suo aiuto, citando brani dei loro scritti di denuncia e indignazione. Una mobilitazione che non gli ha evitato i nove anni di carcere della sentenza di primo grado (lo spettacolo glissa sugli anni di pena effettivi delle sentenze successive, e sui due anni cancellati per “meriti resistenziali”: Braibanti fece “solamente” due anni di galera). Nell’intelligente evolvere del racconto da privato a pubblico Palmese però effettua delle omissioni discutibili: ignora la testimonianza di Piercarlo Toscani, che si dichiarò plagiato, ma soprattutto, si limita a puntare il dito sull’omofobia di destra, nota allora come oggi, evitando di menzionare anche quella meno conosciuta di sinistra. Il PCI infatti, che pure aveva avuto Braibanti tra i suoi dirigenti, non mosse un dito in suo aiuto. Lo stesso fece il movimento studentesco e proletario, perché i “rivoluzionari” del ’68 consideravano l’omosessualità un vizio piccolo-borghese. Solamente i radicali sostennero Braibanti in ogni fase del processo. Una omissione “di parte”, si presume, che pur intaccando la completezza storica degli eventi narrati nella pièce non ne inficia la verve di denuncia.

Purtroppo lo spettacolo subisce, e non per sua responsabilità, un errore di prospettiva storica. Mentre Amorini sottolinea l’origine geografica e sociale dei testimoni al processo per contrapporre alla comicità del loro intercalare l’orrore dei loro ragionamenti omofobi, il pubblico in sala ride, inspiegabilmente, sollecitato dalla comicità di quelle caratterizzazioni, non cogliendo la gravità delle loro affermazioni, che evidentemente paiono, a un orecchio moderno, talmente assurde da risultare risibili. Si ignora evidentemente che negli anni Sessanta l’omosessualità era ancora considerata una malattia mentale e quindi soggetta a cure psichiatriche – sarà depennata solamente nel 1994 – e che l’argomento centrale della pièce non è la messa in berlina degli omofobi di allora, ma il martirio degli omosessuali che venivano “curati” con l’elettroshock o incarcerati.

Un pubblico del tutto impreparato ad assistere a uno spettacolo didattico, nel senso brechtiano del termine, che cioè chiede agli spettatori non già di divertirsi, come sembra accadere in sala, ma di riflettere sui trascorsi storici e sui cambiamenti sociali che quei trascorsi hanno aiutato o impedito, portando più all’indignazione che alla risata, che non solo stride coi fatti raccontati, ma tradisce nel pubblico – anche in quello motivato ad assistere a una rassegna di teatro omosessuale – un’immagine dell’omosessualità maschile “gaia”, che fa ridere sempre e comunque. Perché la memoria storica non consiste solamente nel recupero di fatti rimossi ma soprattutto nella rielaborazione collettiva di quella rimozione. Questo il teatro sa farlo davvero bene, in generale come nel caso specifico di Il caso Braibanti, che meritava un pubblico forse più sollecito e sensibile.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Belli

Piazza S. Apollonia, 11/a – Roma
fino a domenica 26 giugno, ore 21.15

Il caso Braibanti
di Massimiliano Palmese
regia di Giuseppe Marini
con Fabio Bussotti, Mauro Conte
musiche composte ed eseguite da Mauro Varrone