Un uomo ancorato alla sua scrivania e due eteree donne intermittenti fuori dal suo controllo. Il sesso come linguaggio, la pornografia come chiave per analizzare l’animo umano. Coinvolgente, appassionato, verissimo: al Teatro Litta, il pugno in faccia di Anthony Neilson secondo Antonio Sixty. Senza eufemismi.

Una regista che cerca di convincere l’uomo incaricato di censurarla che il suo film non è pornografia, ma arte. Il rapporto tra i due, una moglie sullo sfondo, l’impotenza, il libertinismo, i traumi sessuali, la violenza fisica e psicologica, l’invadenza, la sfrontatezza.

Sembra il tipico caso di spettacolo che sfrutta temi tabù per provocare la curiosità, per suscitare il piccolo scandalo che gli argomenti scabrosi sempre portano con sé. Ma Il Censore non solo è questo, e comunque non in questo senso.

Certo, Anthony Neilson scrive per scuotere, la violenza che scaraventa in faccia al pubblico è sistematica, profondamente voluta e con l’obiettivo primo di creare disagio per svegliare lo spettatore dall’indifferenza – e ci riesce, lo spettacolo scuote e disturba, ma c’è altro. Nel testo, e nella regia. Sul soffitto dell’ufficio del censore, inclinato in una prospettiva impossibile e irresistibilmente instabile, scorrono le immagini esplicite del film; il linguaggio è irriverente, le azioni anche, all’immaginazione resta pochissimo, ma trasportati da una musica essenziale e perfetta ci si ritrova dopo pochi minuti all’interno di un’allegoria psico-sessuale che non solo affascina, ma arriva, quasi subito, a colpire nel profondo, e a commuovere. La recitazione impostata, di una lentezza ipnotica con scatti inquietanti e pause piene di una tensione quasi insostenibile, funziona perfettamente, sorretta dalla bravura indiscutibile dei tre attori, sopra a tutti Gaetano Callegaro, incastrato in un ruolo complesso e scomodo. Da subito i personaggi dichiarano se stessi, in una caratterizzazione quasi stereotipata, lasciandosi identificare e caricare di senso senza equivoci, proprio come l’allegoria richiede; ma man mano che la vicenda si disfa divorando se stessa, sono i personaggi stessi a sfaldarsi, a crollare in una desolante autodistruzione senza via di salvezza.

La spazio, interessantissimo anche se forse fin troppo elaborato, fa da esatto contenitore ai disagi ambigui del protagonista, che si è costruito un mondo algido fatto di lisce pareti sterili, preciso e impersonale ma scosso da ombre e luci (davvero comunicative, dirette da Fulvio Melli) da lui incontrollabili quanto le azioni impulsive e imprevedibili della conturbante regista, che lo provoca trascinandolo in un baratro di euforia, eccitazione e angoscia. La figura femminile, declinata nelle due immagini speculari della moglie e dell’amante, ne esce esaltata seppur immersa nella deprimente melma della società attuale, in una realtà in cui la sconfitta è l’unica conclusione possibile: è la donna ad essere dotata di fascino (un fascino che a volte sfocia nell’enfasi), di forza, e soprattutto di una comprensione dell’altro ai limiti del sovrannaturale.

Mentre la narrazione precipita, strutturata in incastri coinvolgenti e labirintici, le relazioni si mettono a nudo, mostrandosi in tutta la loro sconvolgente profondità, scoprendo ferite sempre più profonde, più dolorose, più sporche e incurabili, e le analisi si intrecciano; la regista cerca di analizzare la realtà attraverso il linguaggio del sesso e di riportarla in un film profondissimo, se solo qualcun altro parlasse la sua lingua («l’amore è un’emozione, il sesso è un modo di esprimersi, un linguaggio: non si può limitare un linguaggio ad una sola emozione»); il censore si sforza di analizzare il film, con le sue ferree regole e i suoi metodi freddi, sperando davvero di riuscire a guardare oltre l’impudico ma non vedendo mai abbastanza; la moglie, incurante, cammina, mentre tutti i tasselli dell’analisi le si aprono davanti. Appassionante, e fortissimo.

Lo spettacolo continua:
Teatro Litta
c.so Magenta, 24 – Milano
fino al 7 luglio, ore 20.30 – riposo domenica, lunedì 25 e martedì 26 giugno
 
Il censore
Di Anthony Neilson
traduzione di Imogen Kush
con Giovanna Rossi, Gaetano Callegaro e Marianna De Pinto
regia di Antonio Syxty
scene e costumi di Guido Buganza
luci e immagini Fulvio Melli
staff tecnico Alessandro Barbieri e Ahmad Shalabi
foto di scena Federico Cambria
direzione di produzione Gaia Calimani
un ringraziamento particolare a Flora Pitirolo