Il critico consulente artistico, promoter, distributore, e perfino dramaturg. Ovviamente non retribuito. A cosa ci sta portando la degenerazione del nostro ruolo?

La penna pesa
Specialmente in tempi in cui l’impegno per scrivere recensioni, sbobinare interviste, elaborare approfondimenti, tenersi aggiornati, girare l’Italia tra debutti e festival – spesso sottraendo tempo ed energie a famiglia, interessi e riposo – non è più compensato da una retribuzione; in cui lo status del critico non è sufficiente a restituire se non pecunia almeno dignità all’impegno (prova ne sono i continui convegni sulla definizione e ridefinizione del ruolo del critico – pensate se se ne proponessero altrettanti sul ruolo, prendendone uno a caso, dell’operatore ecologico…); ebbene, la penna pesa.
In questa società dove il senso stesso della definizione “capacità critica” è messo in discussione; dove l’intellettuale è ormai sotto naftalina insieme alla tuta blu; e la forbita analisi dei twitter ha soppiantato l’approfondimento sul contenuto reale delle leggi e sulla realtà sociale; sì, la penna pesa sempre di più.
In un clima in certo senso svilente, sento colleghi lamentarsi perché invitati a festival non per svolgere il proprio ruolo critico ma per promuovere la manifestazione; offrirsi di distribuire gli spettacoli visti; dare una consulenza professionale ai prodotti in fieri. Mentre gli online – o almeno il nostro – sono continuamente sollecitati a pubblicare gratuitamente comunicati stampa che mascherano pubblicità surrettizia.
D’altro canto, sento anche colleghi che rivendicano questa situazione come scelta professionale e, a fronte di un sistema editoriale che non retribuisce più l’attività intellettuale e/o critica, si ritagliano un ruolo di consulenti artistici, promoter e/o distributori – evitando però di modificare il proprio status, il che comporterebbe un giusto compenso per il lavoro svolto in detto ambito, e scambiando un’ospitalità con le mansioni specifiche di professioni altre.

Ma chi è il critico?
Ovviamente il critico è un giornalista. Sebbene anche su questa definizione, oggi come oggi, possano sorgere dei dubbi. In un momento di grave crisi della professione, l’Ordine toscano sembra compiacersi per la revisione degli Elenchi e per aver espulso un numero di colleghi non retribuiti. Perché non è la qualità a definire il ruolo, bensì la quantità (in questo caso, la retribuzione) – situazione che rimanda stranamente a quella dei requisiti quantitativi per l’assegnazione del Fus nel mondo teatrale. La conseguenza è che uno può scrivere necrologi tutta la vita ed essere considerato giornalista. E un altro può lavorare davvero in questo campo e perdere il tesserino. Fatto salvo che non abbia quello stesso tesserino da almeno 15 anni, nel qual caso è esentato dall’obbligo di retribuzione. Una dicotomia talmente aberrante, questa, che ci si stupisce del fatto che la Corte Costituzionale non sia mai intervenuta su un palese trattamento discriminatorio all’interno del medesimo ordine professionale. Per non parlare del caso degli addetti stampa che sono, al contrario, giornalisti a tutti gli effetti, benché svolgano in realtà (e con piena competenza) un mestiere di tutt’altro tipo, ossia la promozione. E non mi si dica che un addetto stampa fa informazione – basta leggere, in campo teatrale, un qualsiasi comunicato dove si tessono le lodi di attori imbarazzanti persino in una fiction, o del regista avanguardista che è rimasto alla riforma di Stanislavskij, per capirlo. Ma non entriamo in polemica con l’Ordine perché l’argomento è per noi solo marginale.
A questo punto è lecito definirsi critici e, in realtà, fare promozione (o altro) senza un corrispettivo economico? E questo giova davvero ai teatri e ai rappresentanti delle altre professioni oltre che, ovviamente, allo stesso critico?

Informazione v/promozione
Al momento sembrano convergere sui medesimi obiettivi due opposte tendenze. Da un lato, i giornali che vendono pubblicità (o propaganda) invece di informazione, mirano a recuperare lettori svilendo il ruolo degli online (e, quindi, escludendo dalla categoria chi non percepisce reddito); dall’altro, i teatri – sempre più a corto di fondi pubblici – pensano di sostituire figure professionali, da retribuire, con i cosiddetti critici (online o meno), e gli articoli o le recensioni con comunicati stampa e pubblicità gratuita. Entrambi – editoria e mondo teatrale – per operare questo spostamento di ruolo a proprio favore (ma vedremo poi che non è così facile), cercano di svilire il ruolo del critico (o del giornalista) così da depauperarlo a livello materiale e morale per renderlo più manovrabile o, addirittura, eliminarlo dai giochi.
Ma questo serve davvero agli uni e/o agli altri? La mancanza di un’intelligencija è in realtà controproducente a un discorso editoriale serio, che vada aldilà della rielaborazione scolastica delle Ansa, così come a un teatro che voglia confrontarsi con la realtà e che non miri a vedersi riflesso nello specchio distorto del proprio egocentrismo. I lettori (e spettatori) hanno dimostrato in questi anni, proprio con la loro progressiva disaffezione, che i bisogni sono altri. Per andare in profondità – sia nel campo dell’informazione che in quello della creazione artistica – occorrono menti aperte, conoscenza della materia, onestà intellettuale, occhi esperti e professionisti fuori dai giochi. Un critico, nel momento stesso in cui perde la propria imparzialità, come potrà essere credibile in qualsiasi altro ruolo? E qui non entriamo nel merito della concorrenza sleale verso quei professionisti – distributori, promoter, addetti stampa, dramaturg e consulenti artistici – che si vedono, a loro volta, inficiare ruolo e mezzi per pagare le bollette del telefono.

Affinità elettive
I critici non sono, però, moloch e nemmeno isole sperdute in un mare di parole. Sono persone che girano, conoscono, incontrano. Animali sociali che si muovono in un determinato milieu. E come tali, tendono a costruire relazioni con operatori, artisti, drammaturghi e organizzatori. In un ambiente tutto sommato piccolo come quello teatrale, diventa naturale conoscere persone e situazioni che viene voglia di fare incontrare. Alcuni percorsi creativi possono suscitare l’attenzione del critico o della testata, che sarà interessato a seguirli e a documentarli. Una certa comunanza di visione artistica potrà portare il direttore del teatro a chiedere un parere al critico su uno spettacolo. E un critico, a sua volta, potrà sentirsi in sintonia con un autore o un regista e dedicargli un libro. Ma in tutte queste situazioni, e in molte altre, si parte sempre da un dato di fatto: il rispetto reciproco. Proprio perché tu, artista, riconosci la mia onestà intellettuale; e io, critico, riconosco la tua necessità creativa, possiamo costruire una relazione. Ma nel momento in cui io perdo il mio ruolo, cosa resta su questo piatto della bilancia?

La parabola del giorno
In questo periodo vivo in un paesino di mare a sud di Bangkok. Qui le baracche vanno a braccetto con le ville à la Gatsby ed entrambe sembrano resistere all’avanzata dei condomini di lusso – che le minacciano arcignamente come non avrebbe potuto immaginare nemmeno J. G. Ballard. Ogni giorno, per andare a fare la spesa, passo davanti a una sfilza di baracche con i tetti di lamiera, il fronte aperto – riparato di notte da un telo verde, che è steso tra i pali che ne delimitano la proprietà – e il retro altrettanto aperto, su un campo incolto di sterpaglie e alberi grondanti di uccelli e cicale. Una mattina, circa una settimana fa, l’uomo e la donna che gestiscono una specie di rivendita di street food, accanto alla baracca dove dormono, cominciano a muoversi alacremente. L’uomo si mette a lucidare la vettura (un macchinone panna che cozza come un pugno in un occhio con l’abitazione approssimativa della coppia), e poco dopo spariscono. Rivendita e baracca restano vuote, cintate dal telo verde. Comincio ad arrovellarmi. Forse il nuovo vicino, che sta costruendo la propria baracca accanto all’uomo della vettura, lo ha infastidito. Forse un’urgenza familiare. Forse sono andati in vacanza. È tempo di San Valentino: una specie di festa nazionale qui in Thailandia – Paese a maggioranza buddhista dove i festoni di Happy Christmas e Chinese New Year restano appesi 365 giorni l’anno (prima o poi tornano buoni…). Finalmente ieri sera compare un cartello che mette in vendita quella che pensavo essere una baracca abusiva – tollerata dalle autorità perché, altrimenti, dove andrebbero a vivere queste persone? Mi sbagliavo nuovamente: l’uomo della vettura è proprietario di qualcosa, forse il terreno o solamente la baracca, e vuole venderla o affittarla. Ma l’ultimo colpo alla mia vanità, lo ricevo stamani: la coppia è rientrata – la donna nella baracca; l’uomo alla rivendita, seduto a un tavolo a leggere il giornale. E l’auto, sempre linda, al coperto sotto un telone parasole.
Morale della favola?
Il critico è un po’ come l’uomo della vettura: i farang possono anche tentare di ridefinirlo, etichettarlo, assegnargli un diverso ruolo sociale suscettibile a preconcetti, pregiudizi o tornaconto. Ciò che conta è sapere chi si è e cosa si sta facendo.

Approfondimento: Per una nuova figura di critico teatrale