Il tempo ritrovato

Dopo il successo internazionale di un Macbeth in lingua barbaricina, Alessandro Serra si confronta con uno dei testi più intensi della drammaturgia borghese.

Nello sbiadito panorama teatrale italiano di questi anni il regista Alessandro Serra si sta ritagliando un posto di primo piano, definendo con sempre maggiore chiarezza il proprio stile.

Con la sua compagnia Teatropersona, citando Grotowski e, immancabilmente, la biomeccanica di Mejerchol’d, aspira a un controllo pressoché totale delle sue creazioni (drammaturgia, scene, suoni, luci, costumi). Dopo il successo di un bellissimo e pluripremiato Macbettu in lingua sarda e con un cast tutto maschile (a maggio lo spettacolo debutterà anche al Barbican Centre di Londra), ha diretto Umberto Orsini nel Costruttore Solness di Ibsen e ora si è cimentato con Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov, che dopo il debutto estivo alla Biennale Teatro di Venezia, ha appena concluso le recite al Teatro dell’Arte di Milano ed è in tournée.

Traguardo ambiziosissimo dal momento che il capolavoro di Čechov sin dalla prima rappresentazione del 1904, firmata da Stanislavskij, è stato un banco di prova dei più grandi registi europei, che talvolta sono ritornati anche più volte sul testo: Luchino Visconti, Giorgio Strehler (nel 1955 e nella storica edizione del 1974 con Valentina Cortese e l’indimenticabile velo bianco di Luciano Damiani che invadeva la platea), Peter Brook nel 1981 con una scena pauperistica di soli tappeti, Peter Stein nel 1989 e nel 1996, e anche Lev Dodin con il Malyj di San Pietroburgo (una prima versione tutta dark nel 1994 e la più recente l’anno scorso con pesanti interventi drammaturgici, citazioni cinematografiche e l’indimenticabile interpretazione del personaggio di Lopachin di Danila Kozlovskij).

Il fascino del testo deriva dallo straordinario equilibrio con cui un impianto naturalistico (quello che le regie di Stanislavskij portavano in primo piano) accoglie suggestioni simboliste (il secondo atto all’aperto con la cappella abbandonata e le pietre tombali previste in didascalia). La storia si svolge nell’arco di pochi mesi: all’alba di una fredda giornata di maggio Ljubov Andreevna Ranevskaja ritorna da Parigi, dopo cinque anni di assenza, nella sua tenuta in campagna. Era partita precipitosamente cinque anni prima dopo la morte accidentale del figlio Griša, vivendo prima a Mentone e poi a Parigi, dove si era innamorata di un avventuriero. Le finanze della famiglia sono dissestate, la proprietà ipotecata e l’assoluta inettitudine del fratello è incapace di porvi rimedio. Risultano inascoltati i consigli pratici di un commerciante, Lopachin, di lottizzare il giardino, che sarà messo all’asta e acquistato proprio dallo stesso mercante, il cui padre era stato un tempo servo di quella tenuta. L’ultimo atto si svolge ad ottobre: è il momento degli addii, la casa è definitivamente chiusa, il vecchio servitore Firs di 87 anni dimenticato nel suo interno, gli alberi del giardino abbattuti. Durante questo soggiorno nascono storie d’amore, altre sono annunciate, ma non si realizzano, si ricorda e talvolta si fanno progetti, si soffre sempre di solitudine e inadeguatezza.

Nel Giardino dei ciliegi sono rappresentate varie classi sociali e varie ideologie: sopravvivenze del passato (il vecchio servitore Firs rimpiange i tempi che precedettero la cancellazione della servitù della gleba, quando non c’era «tanta confusione»), un’aristocrazia inetta che si definisce populista (il regista taglia la dichiarazione di Gaev, forse per evitare facili fraintendimenti contemporanei), gli aneliti verso il futuro, che sembrano annunciare la rivoluzione imminente nella figura dell’eterno studente Trofimov.

Ma Čechov con l’impietosa determinazione del chirurgo affonda il bisturi: Trofimov è vittima di un velleitarismo generico e sconclusionato, mentre Firs (di cui viene recuperata una scena alla fine del secondo atto tagliata già da Stanislavskij, in cui il vecchio servitore ricorda la sua infanzia) risulta poi un personaggio più cosciente. Ogni singola storia è poi inserita da Čechov in una struttura drammaturgica solidissima che lascia spazio a una moltitudine di personaggi tratteggiati con mano sicura: il piccolo possidente di provincia sempre indebitato, il cameriere arrivista, la governante tedesca che non sa chi è, il mendicante inquietante. Si concentra però sulla storia d’amore non vissuta di Lopachin e Varja la figlia adottiva, e soprattutto sul personaggio tragico di Ljuba, che urla all’eterno studente, convinto di vivere al di sopra dell’amore, di non capire proprio nulla dell’amore e quindi della vita.

Alessandro Serra, suggestionato dal fatto che Il giardino dei ciliegi inizi e finisca nella camera dei bambini gli si accosta, dopo averci meditato a lungo, attraverso la lente interpretativa di Marcel Proust. Ad apertura di sipario troviamo tutti i personaggi sdraiati per terra, come se fossero morti e riprendessero a poco a vivere il ricordo della loro vita: il teatro come tempo ritrovato. La scena iniziale però conferisce allo spettacolo una certa dolenza, che contrasta con l’intento programmatico di dare leggerezza e divertimento alla pièce. Serra sa che l’autore non era soddisfatto della atmosfera tragica che Stanislavskij aveva impresso alla prima rappresentazione, ma non bastano le corse e le danze per il palcoscenico, ispirate in certe posture o situazioni al Čechov dinamico di Nekrosius, a rivitalizzarlo: quello spazio resta sempre un’isola dei morti.

Alessandro Serra colloca i protagonisti in uno spazio vuoto: un fondale cangiante e due pareti laterali, giocando con ombre e riflessi. Qualche sedia di metallo, ombrelli, valigie, pochi oggetti scenici trasformati in macchine celibi, con qualche rimando all’archeologia industriale. Lo affascina poi la partitura vocale che il testo offre, canzoni, cori, sussurri, voci fuori campo, ma soprattutto si sofferma con qualche compiacimento estetizzante su alcune immagini: un profilo sullo sfondo, un gruppo d’insieme sempre pronto a essere fotografato (e qui sembra citare le Tre sorelle di Ronconi), Firs sotto una piramide di sedie legate che un gancio solleva nel triste finale.

Gli attori rispondono efficacemente al progetto registico: si segnala la forza espressiva di Leonardo Capuano nel ruolo di Lopachin, Valentina Sperlì (una Ljuba signorilmente distaccata), Fabio Monti (l’inetto fratello Leonida), Petra Valentini (Varja), il convincente Felice Montervino (Trofimov), Chiara Michelini (la governante tedesca, il cui ruolo è insolitamente sviluppato) e l’ottimo Bruno Stori nel personaggio di Firs.

Nell’insieme abbiamo un cast molto omogeneo, che nel corso delle repliche potrebbe acquistare qualche sfumatura e ulteriore spessore.

Lo spettacolo è andato in scena
Triennale Teatro dell’Arte
Viale Alemagna, 6 – Milano
dal 18 al 21 dicembre 2019

Il giardino dei ciliegi
di Anton Čechov
Regia Alessandro Serra
Con Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina Sperlì, Bruno Stori, Petra Valentini
Drammaturgia, scene, suoni, luci, costumi Alessandro Serra
Consulenza linguistica Valeria Bonazza e Donata Feroldi
Realizzazione scene Laboratorio Scenotecnico Pesaro
Direzione tecnica e tecnico della scena Giuliana Rienzi
Tecnico della luce Stefano Bardelli
Tecnico del suono Giorgia Mascia
Collaborazione ai costumi Bàste
Attrezzista Serena Trevisi Marceddu
Organizzazione, distribuzione Danilo Soddu
Produzione Sardegna Teatro, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE – Teatro Piemonte Europa, Printemps des Comediéns
Coproduzione Compagnia Teatropersona, Triennale Milano Teatro