Čechov secondo Alessandro Serra

Una scena vuota. Senza mobilio, oggetti, grafie. Solo gli attori. Tutti. Stesi. In attesa di prendere parte, la parte: quel recinto di vita di chi recita, che vita non è mai.

Fare la vita degli altri. Per finta, ma per davvero.
La scena vuota, da principio, e gli attori stesi. Solo Capuano, su sgabello, in un cappello apripista, e prima una fioca luce di candela dal retroscena – visibile appena attraverso il fondale (come uno scrutare oltre). Un segno di profondità, forse – portata al centro dal servo, ottuagenario. Dal segno, oggettivato e subliminato, elemento di retorica persuasiva, d’incipit e cardine semiotico, all’azione. E alla rifrazione di questa.

Un luogo d’azione, il palcoscenico de Il giardino dei ciliegi firmato Serra. L’universalità dell’opera, comunicante agli uomini e agli spettatori di ogni epoca, nell’impronta speculare, autoctona, di un acclamato regista contemporaneo. Tradizione e innovazione. La prosa di consumo e il tocco personale, originale, d’un regista dal tratto calcante. Una mistura promettente.
Un luogo d’azione il palco. Azione attoriale. Intesa come restituzione spettacolare in costruzione di figure (verbali, plastiche, silenti) tra attori, elasticizzate dal disegno d’illuminotecnica, in un gioco totale di apparizioni e scomparse, a riaffiorare una delle molteplici facce del dado cechoviano. Strano a dirsi considerando l’assenza di azione dei drammi dell’autore russo, prediligendo l’introspezione psicologica dei personaggi. Ed è proprio la teatralità, questo agire: l’esporre senza mettere in grassetto, amplificare evitando l’esibizione, il significare l’inascoltato, a rendere forma all’interiore: personaggi identificati per segni, estensioni visibili, artificiali di caratteristiche peculiari, interiori, morali.

Gli attori non propriamente autori di se stessi, portanti l’idea autoriale di regia, interpreti in spolvero di virtù. Tecnici. Non primedonne (tenendo fede al principio cecoviano di escludere protagonismi). Collettivi. Pezzi di realtà. La realtà così com’è. Farsesca. Beffarda. Come la storia a cui si assiste imperturbabili: la proprietà in cui famiglie hanno ramificato in generazioni, simbolicamente rappresentata dal giardino, ambiente evocativo di bellezza superiore e d’onirismo decadente, che passa di mano senza lotta, con impotente rassegnazione, per incapacità, per mutamenti ineluttabili metafora d’un cambiamento sociale (siamo a cavallo tra otto e novecento) che più di un progresso sembra un triste declino (la lotta di classe ha formato un nuovo strato di arricchiti, contadini prima, a prendere il posto di debosciati borghesi. Una tragica farsa).

Esagerate le inerzie e le reazioni agli eventi. Il gioco teatrale è qui, un drammatico vaudeville. I servi restano tali, i padroni cambiano. Nulla di nuovo. Qualche lacrima. Illusioni di gloria. Niente cambia, in fondo.
Rassegnazione e illusione, le onde increspate dalla mano registica, in un alternarsi di incomprensioni dialettiche e dimensioni sognanti (in cui l’illusionismo è addirittura suggerito in didascalia).

E riaffiorano, dopo, abbandonato il teatro, le scene composte come un prodotto manifatturiero, a cristallizzare la sensazione avvertita durante, a riecheggiare il sussulto della sorpresa: un tintinnare di cristalli in vassoio a distinguere piani narrativo/drammatici differenti (cambio di registro); i movimenti di danza e i suoni a sottolinearli; il gancio terminale della fune calata dalla graticcia verso il finale fatto oscillare per l’orizzonte visivo; i fermo immagine (di cui non se ne vedevano da un bel pezzo così a regola d’arte); gli sguardi degli attori, frontali, verso un infinito non identificato tra platea e soffitto…
Miele. Per spettatori. Chiamati in causa in accoglienza accessibile. Per i quali “il filo del discorso” è annodato, frammentato qua e la perché si perda nell’obnubilamento della magia, della costruzione affabulatoria visiva.

Domina l’impronta registica. Il personale rifacimento. Quella libertà concessa all’artista riconosciuto capace di “ritoccare” un’opera. Di “manipolarla”.

S’avverte un generale senso di mancanza di filo. Ghiottonerie per gli occhi e per l’anima, durante queste brillantezze, ma poco trasporto, poco entusiasmo. Ma proprio questa la forza. Probabilmente premeditato. Riprodurre quella monotonia, quello stagnare della realtà così com’è. La realtà a cui il teatro fa… il trucco.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro degli Animosi

Carrara
mercoledì 29 gennaio 2020

Il giardino dei ciliegi
di Anton Čechov
regia Alessandro Serra
con Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina Sperlì, Bruno Stori e Petra Valentini
drammaturgia, scene, suoni, luci e costumi Alessandro Serra
consulenza linguistica Valeria Bonazza e Donata Feroldi
realizzazione scene Laboratorio Scenotecnico Pesaro
direzione tecnica e tecnico della scena Giuliana Rienzi
tecnico della luce Stefano Bardelli
tecnico del suono Giorgia Mascia
collaborazione ai costumi Bàste
attrezzista Serena Trevisi Marceddu
organizzazione e distribuzione Danilo Soddu
produzione Sardegna Teatro, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE – Teatro Piemonte Europa, Printemps des Comediéns
coproduzione Compagnia Teatropersona, Triennale Milano Teatro