Parte seconda

Seconda e conclusiva parte dello studio sul teatro di Giovan Bartolo Botta, autore capace di tutto, ma non di lasciare indifferente il proprio pubblico.

La prima parte
L’ottovolante della parola / Il Teatro senza spettacolo di Giovan Bartolo Botta

Il teatro di Botta comincia sempre con uno stop-frame. Cinque attori ci aspettano in piedi, come la squadra di rugby della Nuova Zelanda appena prima della Haka. Ci guardano come fossimo l’avversario. Niente quinte, niente musiche, niente regia luci. Siamo davvero noi il nemico? O, forse, anche a noi assisi in sala, su panche sacrosantamente scomode, è dato un personaggio contro il quale esploderà l’odio?

Sembra di vedere una squadra schierata come a un calcio di inizio, disposta ad albero di natale. Davanti a noi, la trequarti è occupata – alla nostra sinistra – da Mariagrazia Torbidoni e – a destra – da Botta. Subito dietro, diciamo a centrocampo, Krzysztof Bulzacki Bogucki è mezzala sinistra; Isabella Carle gioca alla nostra destra. Flavia G. De Lipsis – centromediano metodista – è alla base dell’albero rovesciato.

Per ogni titolo ciascun attore interpreterà personaggi diversi, si scambierà di zona; anche all’interno di ciascuna tragedia i ruoli non sono mai fissi. Botta è l’unico a muoversi liberamente senza rispettare lo schema. Di fatto agisce da falso nove, alla Hidegkuti o alla Johan Cruijff, come quei centravanti che giocano a tutto campo e – non occupando in maniera statica l’area avversaria – partecipano alla manovra, liberando così spazio per l’inserimento dei compagni, senza allo stesso tempo dare riferimenti al marcatore.

Botta introduce siparietti col pubblico, pare improvvisare riferimenti all’oggi, rallenta il ritmo o lo accelera. Come kantoriano regista in scena, o alla Julian Beck, non è mai dove ci si aspetta di trovarlo. Di fatto non vuole dare riferimenti allo stopper, a quel pubblico che si pone col teatro come davanti alla replica del testo, in cui la sola variante è data dall’interpretazione del personaggio ben riconoscibile da costumi e decorazioni.

A questo proposito, l’insistenza dei riferimenti di Botta al calcio non è occasione per gigioneggiare, quanto per mostrare come un attore e un fuoriclasse debbano essere la stessa cosa, ossia capaci di immediato. Una serpentina di Maradona, un colpo di tacco, un tiro a giro da una posizione impossibile, è rubare il tempo, imporgli una contrazione aberrante, perché al fuoriclasse non è dato tempo (di pensare, di sapere dov’è). È solo, malgrado i compagni gli girino intorno, ma sempre in patetico ritardo.

Il goal di Van Basten a Dasaev? Perchè Botta insiste su questa folgorazione? Perché è il suo ideale di teatro. Botta sulla scena elimina tutto ciò che sta tra una cosa e l’altra, tutte le successioni, tutti i momenti che stanno tra un’intenzione e il suo atto. È come se mettesse i suoi attori in condizione di tirare al volo, con l’oggetto testo ridotto a pallone. Piuttosto che dei personaggi nati morti da un testo morto, la regia sembra condensare l’opera classica a dei fili narrativi che si spezzano, a dei meoli fissati a vele troppo tese dal destino e che, di lì a poco, cederanno con schiocchi sonori. Sottopone il classico a una tale forza di contrazione da mostrare soltanto istantanee di una caduta, quella dell’uomo sottoposto a una forza di trascinamento quasi oscena. È nella rottura della sua anima che avviene qualcosa: un riannodamento nel corpo vivo dell’opera, nel qui e ora della scena.

La poetica teatrale di Botta, così facendo, è un dispositivo che restituisce mancanza all’attore e al pubblico. Il testo, piuttosto che in un’intoccabile integrità, è vivo nel suo smembramento, tale che il pubblico solo a tratti potrà sentirsi rassicurato dal seguire il filo che conosce. L’esperienza che gli si offrirà sarà, piuttosto, quella di lasciarsi continuamente decentrare. Si ha la sensazione che non di spettacolo si tratti, ma di uno dei training di Ultras Teatro, che come per miracolo si avvicina quasi a una performance vera.

È vera. Pur nel suo assai complesso ordito teatrale, c’è più verità sul palco dello Studio Uno che nel nostro famigerato quotidiano, parola con la quale si tenta di dissimulare l’atlante da patologia psichiatrica buono a elencare i sintomi di ogni famiglia rispettabile, come, per esempio, quella raccontata da Garcia Lorca ne La casa di Bernarda Alba. L’improvvisazione, che pure si intuisce in alcune parti, non è spontaneismo d’accatto, favola della libera espressione, riuscita simulazione in scena di una vita artisticamente surrogata, ma esito di un severo training espressivo sottoposto a una rigorosissima educazione del corpo attorale e capace di utilizzarsi come superficie di un taglio inumano.

Quello che vale per Van Basten, o Maradona, vale quindi anche per il teatrante. Niente testo ri-ferito, ma solo ferito. Gli attori in alcuni momenti sembrano essere travolti e travolgersi l’un l’altro dall’azione che innescano. Non resta che seguire uno spartito (un assist a se stesso, uno al compagno di scena) sul quale operare accelerazioni di parola quasi parossistiche, a una velocità tale che è possibile solo cadere, balbettare, imbattersi sul testo che pure c’è, ma solo per inciamparvi.

Gli attori sono privati del teatro, perfino del mondo, galleggiano come possono nel tempo da ridurre a rush, ad accelerazioni, senza prima né dopo, dimenticando l’intenzione e arrivando subito all’atto, al gesto del fuoriclasse. Botta espropria il teatro al teatro. Non c’è più niente, lascia solo le macerie, tra cartacce, zaini sgonfi, sedie a caso, bottigliette d’acqua semivuote. Al pubblico pare di giungere sul luogo di un’esplosione o di un’espropriazione. Le musiche? Le luci? Nessuna promessa di spettacolarità. È teatro senza spettacolo. È teatro che sa di essere un corpo; la vita si percepisce nella mancanza, nel freddo, nella scomodità della seduta, nel voler partecipare al rischio che offre.

Dormire? Sognare? Ma sì… Noi siamo Amleto, noi siamo Antigone. L’infelicità di Adele ci riguarda come ciascuna vita cresciuta senza l’amore necessario a vivere. Senza quel maledetto tiro ellittico e impossibile, Rinat Dasaev forse oggi starebbe nella galleria dei campioni. È cosa triste ricordare vite così? No, a patto di esporci a un teatro come questo di Giovan Bartolo Botta, disposto a farci girare col verso sbagliato del mondo, per riderci sopra o godere della sua vertigine.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno della retrospettiva Produzioni Nostrane Ultras Teatro
Teatro Studio Uno
Via Carlo Della Rocca 6, Torpignattara, Roma
dal 16 al 26 novembre 2017

Amleto Punk
16-17 novembre

Antigone fotti la legge
18-19 novembre

Bernarda Alba o il kaos di Bernarda Alba
23-24 novembre

Agenti e castisti
25-26 novembre