La storia di alcune prestigiose industrie italiane ha fornito al teatro materia per buoni spettacoli di narrazione, a volte in forma di epopee familiari: penso ai monologhi di Laura Curino sull’Olivetti; a Borsalino, lavoro multimediale di Ombretta Zaglio.

Con Settimo, la fabbrica e il lavoro, Serena Sinigaglia, rielaborando drammaturgicamente un materiale molto particolare (circa mille pagine di interviste di giovani e anziani dipendenti della Pirelli di Settimo Torinese, raccolti dalla ricercatrice Roberta Garruccio), si è posta un obiettivo più ambizioso: farne uno spettacolo teatrale a tutto tondo. E ci è riuscita.

Scrollatasi di dosso qualsiasi tentazione agiografica – il lavoro è prodotto dal Piccolo col contributo della Fondazione Pirelli – ha assunto il pretesto della costruzione del nuovo polo di Settimo per affrontate il tema del lavoro (quel lavoro su cui, secondo la Costituzione si fonda la nostra Repubblica) in tutta la sua complessità, comprese le implicazioni più problematiche, legate all’odierna crisi.

Settimo è una Umana Comedìa: il viaggio iniziatico di un giovane che, aspirando all’assunzione nella fabbrica, guidato da un Virgilio sotto le specie di una materna impiegata, visita i vari reparti di lavorazione, simili a gironi danteschi. In ognuno di questi incontra una squadra di operai, quasi un coro greco, ora querulo e chiassoso come i diavoli di Malebolge, ora impegnato in ponderose discussioni sul ruolo del sindacato, sulle grandi lotte degli anni Settanta.

Serena Sinigaglia riesce ad elaborare quel monumentale materiale documentario in forma di puro teatro, affrontando temi impegnativi (l’identità della fabbrica nel passato e nel presente, le dinamiche di potere nel suo interno, l’integrazione degli stranieri, il conflitto generazionale), in un registro in apparenza leggero, ironico, a tratti addirittura comico, ma sul quale, ogni tanto, si allungano ombre angosciose, si innestano domande senza risposta, che ci riportano al destino contraddittorio dell’homo faber.

E anche il finale, nel quale la scenografia assume l’aspetto, fascinoso e inquietante, di un vulcano in eruzione, ribadisce l’ambiguità di una realtà apparentemente festosa, ma dai risvolti paurosamente incerti.

Lumpatius Vagabundus