Sulle tracce del turbamento

Debutto nazionale, al Teatro Era di Pontedera, per la nuova versione de Il Padre di e con Gabriele Lavia. Una lettura che lascia qualche perplessità.

Il secondo sesso di Simone de Beauvoir presenta, nella sua prima parte, una carrellata storica sulla condizione femminile in termini di diritti, possessi, facoltà. Tenendo in mente questo, la scena de Il padre in cui Adolf consegna i soldi e, in seguito, spiega alla moglie di come lei abbia rinunciato per denaro ai suoi diritti sulla figlia (riguardo al problema dell’educazione di Berta), ci indica un contesto storico molto preciso e un’altrettanto precisa situazione. L’opera di Strindberg è scritta nel 1887. Dopo oltre un secolo e le molte lotte per l’emancipazione femminile, quel contesto parla non solo della nostra storia, ma forse anche di problemi ancora scottanti che crediamo soltanto si siano risolti. Perché, dopotutto, come affermava lo stesso drammaturgo, non basta cambiare le leggi perché cambi la condizione di uomini e donne, e la loro relazione nel profondo.

In tema di misoginia e femminicidio (recente è la polemica sul cambio del finale per la Carmen, nella messinscena del Maggio a Firenze), la scelta di portare in scena Il Padre si rivela di un’interessante complessità tutta da esplorare. In un momento in cui la violenza sulle donne è argomento così caldo e urgente, il testo di Strindberg pare quasi una provocazione, eppure le tematiche che affronta possono risultare davvero utili per aprire un dibattito. La vicenda si presenta a noi come un affresco delle dinamiche distorte che hanno governato le relazioni fra i sessi fino a pochi decenni fa e il dubbio che fa sorgere è se alcune di queste non stiano ancora gravando su di noi. Si è portati a ridere o, piuttosto, si è infastiditi dall’invettiva su Onfale e sullo scambio di abiti dell’ultimo atto ma, ad esempio, questa polemica ci ricorda come si credessero prerogative maschili la forza e la volontà, e femminili l’obbedienza e la frivolezza. Siamo sicuri di aver superato simili visioni – in quanto maschi, ma soprattutto in quanto femmine?

Nello spettacolo in scena al Teatro Era si afferma molto spesso (e con una frequenza a dir poco sospetta) che, nell’epoca in cui vivono i personaggi, la scienza non è ancora in grado dare una risposta certa al problema della paternità. È cosa risaputa e scontata che ai tempi di Strindberg fosse così, e lì per lì non si comprende tutta l’importanza e l’enfasi che si pongono sulla questione (assenti nell’originale). Da bravi spettatori si accetta per convenzione di essere nel 1887 sotto ogni riguardo, anche rispetto al progresso scientifico. Perché allora ripetere questo concetto con tanta insistenza? Perché, in fondo, tutto l’impianto drammatico su basa sul problema della paternità di Adolf. Se si potesse verificarla con un esame del DNA , il dramma non avrebbe più ragione. Il tema della paternità è, però, centrale nella lettura del regista Gabriele Lavia, che vede nella perdita della paternità anche la perdita stessa dell’essere. Per questo il ritornare sulla questione e, forse, anche certi cambiamenti apportati al testo. Confrontando, infatti, quello di Strindberg e quello di scena, si notano delle importanti modifiche. Per prima cosa, la battuta di Nojd riguardo i diversi amanti di Emma (e, dunque, i possibili padri): uno soltanto in Strindberg, una sequela di nomi nella versione di Lavia. Poi il taglio della battuta di Adolf nel terz’atto quando, parlando con Laura, fa riferimento al matrimonio come negozio, un «amore per azioni al portatore, senza solidale responsabilità». Pur essendo la chiave di volta del dramma, il problema della paternità risulta l’argomento meno interessante per il pubblico contemporaneo, che non vive più il dramma del protagonista – e non vi si può identificare. Nonostante ciò, la storia di Adolf e Laura offre molte altre tematiche che, al contrario, risultano sempre vive e attuali.

Si è abituati a pensare, soprattutto da un punto di vista femminista, che l’uomo abbia già detto tutto ciò che aveva da dire, avendo costruito una società patriarcale che risponde alle proprie necessità – e in cui l’istituto del matrimonio serve a garantire la legittimità degli eredi. Ci si aspetta quindi che taccia quieto, in silenzio, e chieda scusa. Ma la faccenda, purtroppo, è più complicata. Leggendo il testo di Strindberg è interessante scoprire, aldilà degli attacchi verbali nell’ultimo atto, le sottili accuse e le battute misogine che lo percorrono interamente, oltre al punto di vista maschile sulla propria condizione e sulla relazione fra i sessi. Il testo è uno spaccato su pensieri, stereotipie e aspettative, sì, ma anche sulla sofferenza, i desideri e le paure di un maschio. Sull’interferenza e l’influenza nefasta che le relazioni di coppia e le istituzioni sociali hanno sull’individuo. Il Padre è un testo intricato, complesso e stratificato da questo punto di vista, ma che offre una voce: la voce di un individuo, prigioniero anch’esso (come la donna) della società, delle sue aspettative e istituzioni. Non ascoltare l’uomo, quando si parla di relazione fra i sessi è un rischio (e uno sbaglio). Adolf è la voce che manca al dibattito, una voce che si fa sentire con molta veemenza. Forse che un uomo non ha sogni e necessità, o non provi sofferenze? Non è un caso che egli rivendichi il suo diritto di piangere, un diritto che ai bambini maschi è sottratto molto presto, ancora oggi. Un diritto su cui, e di nuovo non a caso, quando si riflette sul femminicidio, si riporta l’attenzione, in termini di educazione affettiva e connessione con le proprie emozioni. Come Laura, Adolf deve trovare il modo di sopravvivere – anche se non è padrone del proprio destino. Entrambi sono prigionieri della società e la lotta fra loro si realizza con le sole armi che pensano di avere a disposizione. Se il padre rivendica il potere e la forza conferitagli dalla legge, la madre utilizza intelligenza, scaltrezza, seduzione e inganno per ottenere quello che vuole (nel testo di scena è tagliata una battuta del Pastore che, nel descrivere la sorella, racconta della sua determinazione a far trionfare la propria volontà sopra ogni cosa).

Fra i temi che possono essere interessanti anche nell’attualità, troviamo per primo, naturalmente, il problema della paternità come prigione in sé. A prescindere dalla legittimità. Adolf si chiede se il sacrificio che ha fatto abbia un senso o meno – aldilà che l’abbia fatto per un figlio suo, o meno. Tuttavia, di sacrificio pur sempre si tratta. L’uomo si chiede se non abbia assunto gli obblighi che comporta il matrimonio senza averne ricavato i benefici (la certezza della prole). Nel dubbio afferma di aver cercato un senso altrove, nello studio e nella scienza. Pur non essendo invenzione femminile, l’istituzione matrimoniale si rivela così prigione per entrambi i sessi. E a questo punto si affronta un altro argomento importante: la rinuncia e il sacrificio di sé all’interno del matrimonio. Per quale fine? È ancora così? E come si declina questa prigionia sui due fronti? Aprire la questione non è affare da poco, anche nel 2018. Non va sottaciuto nemmeno il problema del potere, ossia del disequilibrio fra i coniugi (in questo caso fra volontà e facoltà economica, fra la volitiva Laura e il fragile marito fonte di sussistenza); ma anche la tematica della definizione dei ruoli e delle rispettive competenze è molto forte. Nel testo ritroviamo il problema della libertà, dell’indipendenza, il bisogno di realizzazione come singoli individui – tutte questioni capitali dell’esistenza umana (eppure, ancora oggi, la vita di molti pare non avanzare bensì procedere su binari stabiliti da altri). Vi scopriamo la necessità dell’autonomia e dell’autodeterminazione; quello della maternità nei suoi meccanismi di separazione/individuazione fra madre e figlio, il dramma di trovare un senso oltre i figli (problema che riguarda tanto Laura quanto Adolf, sia come padre sia nella propria relazione con Margherita). Oltre a tutto ciò è davvero affascinante scoprire come, nel confronto violento del secondo atto, entrambi i coniugi, in quanto maschio e femmina, si sentano vittime soccombenti di fronte alla presenza e all’energia dell’altro. Più si scava, più questioni sembrano aprirsi. E probabilmente risiede proprio in questo, il fascino dell’opera di Strindberg.

Il compito sembra farsi difficile per chi legga e interpreti il testo – per rendere la complessità della situazione, delle trappole e dei meccanismi sociali e psicologici di cui è costellato. Rappresentazione delle trappole, senza bisogno o desiderio di psicanalizzare: la forza del testo è quella di portare in scena, senza commenti o analisi, dinamiche contorte e soffocanti per l’individuo. La lettura presentata da Lavia si concentra sul motivo centrale, motivo però tutto sommato sterile per il mondo contemporaneo, quando invece il contributo che il testo potrebbe offrire alla riflessione sarebbe oltremodo ricco. La messinscena, ruotando tutta intorno al tema paternità/perdita dell’essenza per il maschio, risulta obsoleta, non rendendo onore alla complessità succitata, ed enfatizzando una misoginia che, soprattutto nell’ultimo atto, diventa faticosa da tollerare. La scena, sontuosa, cattedrale slanciata verso l’alto da pareti di velluto (di cui ci si domanda il costo), tinge il palco di un rosso sangue pastoso e denso. I mobili sono reperti e residui di un naufragio su una spiaggia di sangue. Il cambio scena getta tutta l’ultima parte dello spettacolo all’interno di un utero, la proiezione di un pazzo, la prigione della follia, in cui – come guardiani o feroci animali selvatici – gli altri personaggi si aggirano, spingendo la vittima con le spalle al muro, per finirla. Incuriosisce l’angolo della scienza posizionato sul proscenio: qualcosa riporta alla mente Dürer e la sua Melancholia 1 – un uomo alla ricerca del suo senso, perso nell’angoscia esistenziale, inutile insetto nell’infinito.

Appesantiscono l’andamento dello spettacolo gli inserti operati nel testo, in particolare risulta forzato il monologo alla fine del primo atto originale (quando Adolf esce di casa), a maggior ragione così come è stato realizzato (cambio luci, attore sul proscenio, pezzo di bravura – che stona con gli ideali del teatro intimo di Strindberg).

Grande successo di pubblico, che applaude con calore tutti gli interpreti e, in particolare, il regista e protagonista Gabriele Lavia. Applausi per un teatro di tradizione così tradizionale da muoversi quasi all’indietro. Applausi per attori che dimostrano uno stile recitativo discutibile. Applausi per un teatro che, sarà per i costumi, ci ha ricordato di tanto in tanto la fiction Orgoglio. Un successo di pubblico che lascia amareggiati, soprattutto in un momento di crisi economica, e in cui tanti attori e artisti – del calibro di Danio Manfredini, Claudio Morganti o Roberto Latini – ma anche moltissime Compagnie di giovani non riescono ad avere che miseri finanziamenti pubblici.

Mistero della fede. Beata ignoranza.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Era
Parco Jerzy Grotowski
via Indipendenza – Pontedera (PI)
domenica 14 gennaio, ore 17.30

Il Padre
di Johan August Strindberg
regia Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Federica Di Martino, Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Luca Pedron e Ghennadi Gidari
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
regista assistente Simone Faloppa
scenografo assistente Andrea Gregori
suggeritore Sebastiano Spada
produzione Fondazione Teatro della Toscana
Foto Tommaso Le Pera