Banalità del male

Allo Spazio Diamante, la compagnia Pupi e Fresedde porta in scena Il principio di Archimede del drammaturgo catalano Josep Maria Miró.

Due istruttori di nuoto, Jordi ed Hector. La direttrice della piscina, Anna. Il padre di un bambino che ne frequenta i corsi, David. Un bacio, i sospetti, il terrore. E poi scuse e accuse senza ritorno che portano a un finale aperto. Questa, in breve sintesi, la pièce firmata da Josep Maria Miró.

Cosa sia veramente successo nel non visto di questo allestimento, la cui narrazione si sviluppa in un continuo e onirico gioco di flashback e flashforward, non è dato sapere: «dal punto di vista oggettivo, non sapremo mai la verità sulle reali intenzioni di Jordi, sta allo spettatore farsi un’idea della personalità del giovane e di posizionarsi moralmente su ciò che ha visto» (corsivo dalle note di regia).

Miró affresca un testo spigoloso e psicologico, in cui a essere protagonisti sono, da una parte, gli spettatori (disposti frontalmente su due platee e chiamati a domandarsi cosa stia succedendo) e, dall’altra, il dispositivo della paura in una società (la nostra) nella quale l’antefatto di un banale episodio (il bacio di un istruttore premuroso) e l’incontrollato/acritico rimbalzo su Facebook  dei sospetti su  Jordi concorrono a creare le premesse di una tempesta potenzialmente perfetta.

Rimandando a quanto scritto dalla nostra Caris Ienco per una dettagliata analisi dello spettacolo, della messa in scena di Angelo Savelli alcuni elementi risultano gravemente incoerenti. Se perplimono le interpretazioni dei quattro interpreti, affettate nella vocalità e manieristiche nelle gestualità (come nel caso in cui Anna, approfittando dell’armadietto lasciato aperto da Jordi per cercare prove della sua colpevolezza o innocenza, prova a celare goffamente il proprio tentativo), a risultare confusa è finanche l’ambientazione in una piscina restituita con disomogeneo naturalismo (inspiegabile la presenza negli spogliatoi dei cordoni galleggianti usati in vasca per separarne le corsie).

Savelli costruisce un meccanismo colmo di sbavature perfino nel farlo succedere diacronicamente, complice un ritmo spezzato e mai sostenuto, nonché diluito in momenti temporali in cui – «andando avanti ed indietro nella vicenda» – troppo degli eventi precedenti viene ripreso, a volte anche con dettagli maldestramente differenti. L’esito è una stucchevole sensazione di ridondanza che se, da un lato, non concorre a determinare l’auspicato atteggiamento di attenzione da parte del pubblico, giunge, dall’altro, a disperdere la lancinante dialettica verbale che la drammaturgia di Josep Marí Miró immaginava tra interpreti postmoderni, dunque privi di resilienza, incapaci di alzarsi al minimo inciampo esistenziale e succubi della maldicenza e dello stigma social.

La caratterizzazione dei personaggi, dalla postura legnosa all’uso di inopportune (dati i nomi catalani) inflessioni dialettali meridionali, descrive a sua volta un quadro di nessuna credibilità se non all’interno di una palese falsità teatrale. Un didascalismo spinto all’eccesso e in cui nulla dal punto di vista visivo viene lasciato all’immaginazione, che fatalmente precipita nell’imbarazzante momento in cui una folla inferocita di bambini fomentati dai genitori prende a pietrate le vetrate della piscina in segno di protesta contro Jordi e, infine, nel patetico finale tranchant.

Rispetto a tematiche di estrema urgenza (il corporativismo nei social, l’orrore della pedofilia, le difficoltà genitoriali, la società della paura), quello che ipoteticamente era un j’accuse altamente metaforico di una civiltà incattivita e prigioniera delle proprie fobie, una progressiva caduta verso solitudine e rabbia, appare nelle mani della compagnia Pupi e Fresedde un adattamento debole, abitato da personaggi teatralmente mai in grado di argomentare con i nervi della ragione e l’emozione del sangue o di mostrare le fragilità di chi, assalito dai dubbi, perde ogni fiducia in se stesso, dunque banalmente piegato alla semplice demonizzazione delle «relazioni sociali […]  di Facebook, un linguaggio contemporaneo che, insieme ad altri consimili, ci ha modificato la forma di pensare».

Lo spettacolo è andato in scena:
Spazio Diamante

via Prenestina 230 B Roma

Il principio di Archimede
di Josep Maria Miró
traduzione e regia Angelo Savelli
con Giulio Maria Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini, Samuele Picchi
scene Federico Biancalani
luci Alfredo Piras
foto Pino Le Pera