Il palcoscenico della morte

Una storia vera che lo spettacolo non sa trasformare in una riflessione universale sulla violenza e sul dolore che l’essere umano infligge ai propri simili.

Dopo un prologo in cui brani di documentario alternati a filmati di repertorio e commentati dalla voce narrante e da interviste ad alcuni storici ricostruiscono gli eventi che portarono alla presa del potere da parte di Hitler, lo spettacolo entra nel vivo presentando il protagonista del dramma, l’ebreo polacco Hertzko Haft (impersonato da due diversi attori che si scambiano più volte il ruolo), e i rivolgimenti che ne segnarono l’esistenza: l’infanzia povera trascorsa in una cittadina polacca, l’incontro e l’amore per una correligionaria, infine l’internamento in un campo di concentramento nazista dopo l’invasione tedesca e la capitolazione del suo paese.

Grazie alla sua forza fisica, Hertzko viene costretto a combattere decine d’incontri di pugilato per divertire gli ufficiali delle SS, finché, dopo la liberazione del campo, decide di trasferirsi a New York per continuare la carriera da boxer.
La storia, realmente accaduta, rammenta i combattimenti nei circhi cui i romani obbligavano gli schiavi, costretti a scegliere se uccidere o lasciarsi uccidere. L’assunto dello spettacolo parrebbe voler sostenere che la violenza subita dal protagonista finisca col restargli in corpo, veleno ineliminabile, col divenire la sua unica arma e il solo strumento di rapporto col mondo: attraverso un monologo del figlio veniamo a sapere, infatti, che Hertzko è un padre violento e manesco e che solo in tarda età, dopo aver rincontrato la donna amata in gioventù, confesserà al figlio le sofferenze subite. La messinscena e la recitazione, però, risultano deboli e incapaci di conferire vigore e coerenza alla trattazione di un tema quantomai arduo e complesso.

A cominciare dal prologo documentaristico, la cui funzione appare meramente didattica ed esplicativa, volta a fornire un riassunto di un capitolo di storia contemporanea a un pubblico che si ritiene evidentemente non troppo familiare con l’argomento; l’impressione che si ricava, però, è quella di trovarsi più sui banchi di scuola che a teatro e ciò non giova certo al buon esito dell’insieme, zoppicante sin dall’inizio. L’accostamento di due linguaggi differenti come il cinema documentario, da un lato, e il teatro, dall’altro, si rivela poi controproducente, in quanto le immagini animate riprese dal vero, dotate di un livello di realtà ben maggiore, indeboliscono inevitabilmente l’effetto di realtà della rappresentazione teatrale. È come sbattere un vaso di coccio contro a un vaso di ferro: il risultato è la distruzione dell’effetto di realtà del teatro, o almeno il suo drastico indebolimento. Si aggiungano poi dialoghi ampollosi e retorici, conditi di sostantivi tanto logori e abusati da suonare ilari, specialmente su un palcoscenico e in particolare nei duetti fra il protagonista e l’amata; persino gli insulti rivolti al protagonista dai suo aguzzini («scarafaggio», «verme») suonano invariabilmente insinceri e falsi, specie nel contesto di una scena e più in generale di una vicenda che si vorrebbe improntata alla verità storica dei fatti, come il prologo documentaristico intende sottolineare.

Poco motivata appare infine la scelta di far scambiare più volte di ruolo i protagonisti maschili: l’uno interpreta prima Hertzko, quindi, nel finale, il figlio di questi che attraverso un monologo racconta del suo difficile rapporto col padre; mentre l’altro impersona a tratti il protagonista e a tratti i comprimari che incontra via via (l’ufficiale nazista che lo costringe a combattere, l’allenatore che lo introduce nell’ambiente del pugilato a New York) e in altri momenti, infine, funge da voce fuori campo di Hertzko, verbalizzandone i pensieri, a beneficio, s’immagina, della comprensibilità e della chiarezza della trama. Il solo personaggio femminile, quello della fidanzata del protagonista che questi rincontrerà solo molti anni dopo la fine della guerra, è confinato in unica scena collocata nella prima parte dello spettacolo e torna a ricoprire un ruolo attivo solo nel finale, quando gli amanti di gioventù possono finalmente riabbracciarsi. L’attrice, tuttavia, rimane presente sul palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo, indipendentemente dalla presenza del suo personaggio nella scena che si va svolgendo; anche tale scelta appare tutt’altro che giustificata a livello narrativo. Alla luce di quanto sopra evidenziato, lo spettacolo non sembra capace di trattare in modo convincente temi di tale complessità e rilievo e rivela lungo l’intero svolgimento tutta la sua intrinseca debolezza di concezione e di esecuzione.

Lo spettacolo continua
Teatro Libero
via Savona 10, Milano
dal 27 febbraio al 5 marzo 2017

Il ring dell’inferno
drammaturgia Antonello Antinolfi e Giulia Pes
regia Francesco Leschiera
con Ettore Distasio, Giulia Pes ed Ermanno Rovella
luci di Luca Lombardi
scene e costumi Francesco Leschiera e Paola Gano
elaborazioni sonore Antonello Antinolfi
assistente regia Alessandro Macchi
scenografie digitali Dora Visual Art
produzione Teatro del Simposio