L’età dell’amarezza

Un monologo sulla difficoltà di vivere la giovinezza, sul peso che trasforma una stagione di scoperta in un percorso a ostacoli.

Accompagnato da un coro, che gli pone domande e gli chiede di trattare alcuni temi specifici tratti dai materiali conservati nel suo archivio, un attore archivista racconta di come sia difficile essere giovani oggi in un mercato del lavoro precario, soffocati da una tecnologia che cela il vuoto creato dall’assenza dei genitori. Alle sue spalle, vengono proiettate immagini che fungono da spunto e da commento agli argomenti via via affrontati.
Uno spettacolo a sorpresa e sempre diverso, giacché, dei quaranta testi contenuti nell’archivio, a ogni replica ne andranno in scena sette diversi, scelti proprio dal coro dalla composizione ogni volta differente.

Il tema di fondo è costituito, come si diceva, dalla fatica che devono sopportare in questi tempi le nuove generazioni, alle quali manca la fiducia in un avvenire migliore e più sicuro di quello  posseduto dai propri padri. Incertezza nella vita lavorativa e, di conseguenza, anche in quella sentimentale compongono una condizione di solitudine e d’abbandono che inizia già nell’infanzia, segnata dal disinteresse dei genitori per i figli. Vistisi trascurati da chi dovrebbe pensare loro, i bambini si rifugiano nel culto e nella dipendenza dagli oggetti, inutili eppure indispensabili sostituti dell’attenzione dei genitori.

Proprio questo sembra sostenere il bel monologo dove gli oggetti rivelano di essere loro a possedere i propri utenti e non il contrario: macchine, elettrodomestici e telefoni che volteggiano nel cielo portandosi dietro chi è divenuto loro dipendente. In un simile contesto, pare affermare il nostro archivista, non stupisce che la comunicazione fra le diverse generazioni risulti quantomai ardua: Non chiedermi più chi sono s’intitola infatti il monologo d’apertura, dove un figlio così rivolge a genitori che insistono nel domandargli qualcosa cui nemmeno lui può rispondere e  «non chiedetemi chi sono, ma che cosa sto facendo» diviene allora l’unica risposta possibile. Tale incomunicabilità si traduce nel ritornello che i ragazzi sentono ripetersi dalla famiglia («Tu non sei normale»), mentre i vari componenti del coro, più o meno giovani, recitano il proprio monologo proprio per raccontare le rispettive incomprensioni come familiari e la difficoltà nel farsi accettare per come sono. Storie diverse accomunate da un unico tema, quello delle aspettative sbagliate che i genitori ripongono nei figli e che impediscono loro di vederli e apprezzarli per ciò che sono davvero e non per quanto loro vorrebbero che fossero.

Alle spalle dell’attore, come detto, scorrono fotografie che raffigurano le medesime storie raccontate a parole dall’archivista e dal coro, in un dialogo fra l’immagine e la voce. Talvolta sono anche canzoni, come la celebre, Take a walk on the wild side di Lou Reed a introdurre il tema del monologo che segue, talaltra, invece, è la letteratura a fornire lo spunto d’avvio e a essere citato è questa volta il racconto The Veldt di Ray Bradbury, quantomai in tema con gli argomenti trattati. Lo spettacolo si compone dunque di parole, musica e immagini e storie diverse e si apre al contributo di più voci, in una sorta di polifonia che offre prospettive molteplici su d’un medesimo tema, che fa da fil rouge e ne garantisce la coesione. S’alternano i toni leggeri e umoristici a quelli più seri e drammatici, ma non viene mai meno l’attenzione e la partecipazione sofferta verso le sofferenze di un’età tutt’altro che facile da vivere. Sotto al peso di tante difficoltà e incertezze, oggi la giovinezza sembra potersi declinare solo in negativo: così, l’età della scoperta e della fiducia diviene l’età del disinganno e dell’amarezza.

Lo spettacolo è continua
Campo Teatrale

via Cambiasi 10 Milano
dal 17 al 22 e dal 24 al 29 gennaio

Il sogno della gioventù
di e con Gianluigi Gherzi
regia Silvia Baldini
partitura fotografica Luca Meola
allestimento scenico Erica Sessa
disegno luci Beppe Sordi
produzione Gherzi-Bandini