Il sottosuolo, utopia di un’umanità senza speranza

Al teatro Vascello di Roma, va in scena in data unica Il sogno di un uomo ridicolo di Fedor Michajlovic Dostoevskij, una produzione La Fabbrica dell’Attore e Associazione Controchiave, recitato da Gabriele Lavia accompagnato al piano dal suono inconfondibile di Rita Marcotulli.

Difficile mettere su carta le emozioni e le suggestioni di un testo così complesso ed affascinante, intimo e brutale come Il sogno di uomo ridicolo di Dostoevskij. Un’opera – inserita nell’ambito dell’iniziativa Doppio assoluto, la voce intorno al suono – che entra e brucia gli animi di chi lo ascolta, ritrovando pezzi se non l’essenza stessa della propria vita, del proprio precario essere al mondo. Un viaggio che non può che essere onirico, di un uomo disperato, indifferente a tutto e insensibile alla sua stessa sorte terrena, in procinto di suicidarsi per porre fine ad una sofferenza ormai insopportabile e allo stesso tempo voluta, bramata e desiderata come misura, spazio e dimensione concreta del suo esserci, del suo darsi e togliersi. Uccidersi per restare in eterno. È l’icona di una inadeguatezza, di un presenza ritenuta da tutti ridicola, perché diversa, non conforme all’omologazione presente. È la ricerca folle di un senso ultimo, di una speranza utopica che solo a partire dal sottosuolo, da quelle ombre esistenziali e psichiche che Dostoevskij frequentava quotidianamente – facendone il canovaccio di tutta la sua elaborazione poetica – può inverarsi in una concreta lotta per la riqualificazione di un’umanità annientata e dispersa nell’odio reciproco, nel rancore e nelle infinite, grottesche maschere attraverso cui tenta maldestramente di sopravvivere a se stessa, al proprio delirio putrescente, alla propria inevitabile autodistruzione.

Un sogno che spazia dalla volontà di morte e di eliminazione – per trovare finalmente pace – all’odore di pietà che una bambina infonde in un uomo-ombra già evaporato, che non può né vuole vedere e chiedere niente alla sua paludosa esistenza, fatta di vuoto e cinica presenza in una condizione di abbrutimento senza rimedio.

Un malessere esistenziale che Lavia incarna alla perfezione, con un physique du rôle che lo ha portato più volte ad interpretare i lugubri fantasmi di Dostoevskij, senza farne una parodia moderna, un burattino manovrabile a piacere, ma ricalibrandone la magica lirica alla luce delle contraddizioni insanabili del nostro tempo, in una dialettica tra passato e presente costantemente in linea con il desiderio dell’autore russo di parlare all’uomo concreto, di tutti i giorni, alle prese con le sue tenerezze e i suoi orrori, senza fuggire la morte ma guardandola in faccia, come una madre autoritaria ma paziente, che aspetta e accoglie tutti i suoi figli, senza distinzione alcuna.

Straziante il momento in cui – grazie anche alla ritmica avvolgente e anch’essa onirica, spaesante, delle composizioni di Rita Marcotulli – l’uomo sognante si addormenta all’improvviso, rimandando per il momento un suicidio progettato da millenni e procrastinato all’infinito. Una sorta di esorcismo per sopportare l’insopportabile male di vivere giornaliero, ritrovandosi per incanto in una comunità di uomini felici e realizzati, completamente astratti al pensiero morboso della felicità e della giusta direzione – che quasi sempre ha una radice etico-morale e dunque formale, che ne incardina violentemente il fluire autonomo – da dare all’esistenza. Un’umanità “pura ed assoluta”, avulsa dal male e dal dolore, un epicentro leggendario e proprio per questo spaventoso e angosciante, saturo di una bellezza ineccepibile e troppo alta per essere vissuta realmente, che bandisce il soffrire come necessario contraltare alla gioia. Una perfezione che l’uomo sognante brama ma che allo stesso tempo diffida, abituato com’è alla radicale infelicità e insoddisfazione della propria sopravvivenza terrena, schiavo fedele del ridicolo che non potrà mai barattare né ripudiare una volta per tutte, in quanto essenza fondamentale del suo essere al mondo, identificazione di sé agli altri.

La certezza di una vita dopo la morte non gli basta: il suo obiettivo non dichiarato è quello di sparire realizzandosi nella propria infantile fantasia, nella decifrazione psichica di una realtà “perfettamente” inautentica rispetto a quella vera, eppure, proprio per questo, ancora più desiderabile e vicina. Il senso ultimo non è più il vivere, ma il raccontare, il narrare ciò che va disvelato, riportare alla luce l’oblio, le magre consolazioni degli uomini dispersi e annullati dalle brucianti sconfitte di cui non hanno la forza di capire le ragioni storiche.

Dopo essersi beato idealmente nell’incorruttibilità di questo mondo, si rende conto con disgusto di averlo inquinato con il suo scetticismo cronico e la sua nausea strisciante: si sente allora come un Dio che ha tradito e ucciso i suoi figli, la sua creazione più bella e riuscita, senza capire il perché, come un’idea illogica, una parola senza verbo, un volto senza più connotati, un’identità neutra e anonima giunta a uccidere l’unica speranza di rinascita per un’umanità vittima predestinata dei suoi sensi di colpa, chiusa in una camicia di forza, sigillata in un carcere – il suo stesso esser natura – da cui non potrà uscire se non imparando che solo “amare gli altri come se stessi” è l’unica àncora di salvezza, l’unica promessa d’autentica felicità a cui può e deve aspirare.

Parole dette e ridette infinite volte, dice Dostoevskij, ma che vale la pena di ripetere. Forse la rinascita a miglior vita può e deve partire dai sogni, o meglio, dai deliri di un uomo ridicolo ridotto a vagabondare in un mondo macerato e in perenne putrefazione, statico nelle sue apparenze omologanti, marcio nelle sue ipocrisie, nei suoi personaggi di cartapesta senza tempo né storia, in cui forse la pietà filiale verso una bambina orfana, abbandonata al suo tragico destino, può risvegliare nelle tenebre quotidiane la luce di un nuovo giorno, di una nuova elegia, certi di non dover evocare, aspettare invano un messia, bensì rimboccarsi le maniche per rielaborare una bellezza inedita, un desiderio familiare e intimo sepolto sotto le macerie della storia, che inconsapevolmente, amando senza riserve, si incarichi di salvare il mondo.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Vascello
Via G. Carini 78 – Roma
lunedì 16 maggio, ore 21.00

Il sogno di un uomo ridicolo
di Fëdor Dostoevskij
con Gabriele Lavia e Rita Marcotulli