Ritratti d’autore

È la notte del 24 marzo 1976 quando il generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il futuro generale delle forze aeree Orlando Ramón Agosti assumono il potere in Argentina a seguito di un colpo di Stato manu militari. Negli anni a seguire e nella più assoluta segretezza saranno alcune decine di migliaia gli argentini desaparecidos, che scompariranno dopo aver subito pesanti torture – dai pestaggi alle scariche elettriche passando per gli stupri e le ustioni provocate con lanciafiamme portatili.

Proprio in quel clima sociale e politico nasce «la Comuna Nucleo nel ʻ74», come ci racconta Cora Herrendorf. «Avevamo deciso di creare una comune in cui vivere e lavorare insieme. Il colpo di Stato argentino ci sorprese mentre eravamo in Italia per partecipare a un Festival teatrale a Palermo. Ma solamente nel ʻ78, dopo diversi andirivieni tra i due Paesi, scegliemmo di rimanere definitivamente in Italia».  A motivare la loro decisione anche il fatto che, nel ʻ77, si trovassero a Sassari: «dove fummo invitati, come gruppo teatrale, ad ‘aprire’ il manicomio. Per quell’occasione inventammo una festa così da spalancare le porte dell’istituzione alla cittadinanza» – un po’ come aveva fatto Giuliano Scabia (recentemente scomparso), a Trieste nel ʻ73, con Marco Cavallo. E fu in quelle giornate di grande fermento che, sempre come ricorda Herrendorf: «Venimmo in contatto con diversi esponenti di psichiatria democratica e incontrammo Antonio Slavich che, in quel momento, dirigeva il manicomio di Ferrara e ci invitò a seguirlo per iniziare quel processo che avrebbe portato al superamento del manicomio grazie anche all’arte e all’immaginazione, in quanto considerati più forti dell’istituzione. Ed è stato lì, nel manicomio emiliano, che nacque Teatro Nucleo».

A proposito di questa esperienza, Horacio Czertok (co-fondatore con Cora Herrendorf di Teatro Nucleo), scrive in Teatro in esilio: “Si preparava la legge 180, che verrà poi promulgata l’anno successivo e che abolirà i manicomi, considerati luoghi di emarginazione e repressione non adatti a curare la sofferenza psichica. Come un relitto medievale l’ospedale psichiatrico affondava una prora di angoscia e terrore nel fianco della città. Un migliaio di persone viveva un’esistenza paradossale regolata da leggi inadatte a esseri umani. Persone dimenticate. Bollate ‘malati di mente’. Sottomesse a trattamenti affatto atti a guarire bensì a contenere, a fare morire in vita”.

«Il teatro non ha però sconfitto il disagio psichico, non ha aperto i manicomi», continua oggi Herrendorf: «Gli artisti, o almeno alcuni tra loro, sono dei visionari, un po’ ‘matti’, dei disagiati perenni e, in questo modo, in grado di occupare gli spazi che consideriamo vuoti, ossia che pensiamo abbiano bisogno del nostro contributo. Ma in alcuni c’è la prepotenza di credere che siamo infallibili – e non è vero. L’arte è semplicemente una condizione umana, anche se ormai occupa uno spazio minimo nella nostra società». 

Dai manicomi al lavoro con le comunità di tossicodipendenti e in carcere
Negli anni a seguire Teatro Nucleo affianca anche i percorsi terapeutici diretti ai tossicodipendenti. Czertok scrive: “Eravamo migranti, esuli politici che le minacce di morte di una dittatura militare avevano privato della possibilità di vivere e fare teatro in serenità. Accettammo l’invito di Ferrara, dove reinventare il nostro teatro, e dove poter crescere in tranquillità i nostri figli”.

Mentre Cora Herrendorf ha smesso da anni di occuparsi del lavoro all’interno delle istituzioni – ex OP, carceri o comunità – altri colleghi di Teatro Nucleo continuano a operare in ambito sociale anche se Herrendorf tiene a precisare che: «Il teatro non ha alcuna funzione riabilitativa rispetto al tossicodipendente, perché lo stesso non ‘va riabilitato’. La tossicodipendenza è un errore personale di percorso. Non ci è mai interessato il cosiddetto ‘tunnel della droga’. Il nostro teatro non aveva la pretesa di fare uscire da tale tunnel. Ma se il teatro motiva, pone in una situazione di principio di piacere, che riesce a bilanciare la sensazione prodotta dalla sostanza stupefacente, ecco raggiunge già uno scopo». E anzi, Herrendorf aggiunge con forza: «Si fanno molti discorsi sul teatro che funziona, che riabilita o che serve. Il teatro non serve a niente! A volte nemmeno agli artisti che lo fanno. Il teatro è un’arte e, come tale, non serve a qualcosa, non ha la funzione di… Ma a questo punto bisognerebbe domandarsi qual è e quale sia stata, anche nella storia, la funziona dell’arte».

Sulla funzione del teatro in carcere è però Czertok a scrivere alcuni passaggi interessanti nel libro più volte citato: “Ero stato imprigionato e torturato, in Argentina, ma ovviamente non ero riuscito a farci del teatro. In Italia era possibile, ma bisognava fare sul serio” e più oltre continua: “Non si può ‘provare’ sulla pelle dei detenuti… Le statistiche ufficiali mostrano che la recidiva tra i detenuti che fanno teatro è del 20% circa, contro il 75% di norma”, questo perché – come spiega lo stesso Czertok ma anche molti altri registi e operatori che lavorano con i reclusi in varie regioni italiane – il teatro responsabilizza, permette di riflettere e rielaborare emozioni ma anche vissuti, dà dignità, infonde sicurezza in se stessi e, da un percorso teatrale, si può emergere più consapevoli su ciò che si è, si è fatto e, soprattutto, si vorrebbe fare in futuro.

La seconda parte, dedicata al Metodo di Teatro Nucleo, su www.inthenet.eu

Nella foto: Cora Herrendorf (foto gentilmente fornita dall’ufficio stampa di Teatro Nucleo).