La Stagione dei Teatri ravennate si apre con Made in Ilva di Instabili Vaganti, il giorno dopo i risultati dello storico accordo tra sindacati e Mittel – tra qualche spiraglio e molte chiusure. Coincidenza o necessità? Ne parliamo con Marcella Nonni e Alessandro Argnani, del Teatro delle Albe, e raccontiamo l’immersione poeticamente impoetica di Instabili Vaganti in una Taranto che ricorda la Sheffield di Full Monty.

Ravenna, 14 settembre. Come redazione di Persinsala da alcuni mesi ci interroghiamo sul teatro. Prima lo abbiamo fatto sul versante istituzionale, analizzando i punti che non ci convincono del Codice dello spettacolo dal vivo. Poi abbiamo letto la disamina di risposte teoriche, pratiche e soprattutto del mondo accademico sulla definizione di teatro, contenute nel volume Ivrea Cinquanta. Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967-2017 (definizioni che ci paiono più utili a dottorandi e storici che non a chi vive di questo antico mestiere). E ora ci ritroviamo al Teatro Rasi, dove l’anno scorso ci era parso di piombare – dalla luminosità del tramonto ravennate – nel ventre nero di un villaggio, in ostaggio di Boko Haram, avvolti dalla voce di Renaud (un Roberto Magnani che sembrava stillare sangue dalle parole scarne di Simone Weil ne l’Inferno firmato Martinelli/Montanari, e che in questi giorni si cimenta alla regia del Macbetto di Testori). Questo percorso ci pone di fronte a una questione: un teatro necessario non può che mettere in scena la realtà nel suo farsi, e questo teatro – nel rispecchiare la contemporaneità – non deve emergerne subalterno, ossia pedagogico o propedeutico a qualcos’altro, in quanto non va dimenticato che le radici del teatro occidentale affondano in quello greco, nel quale la comunità ateniese, riunita, vedeva dibattersi i temi dell’epoca (uno fra tutti, la guerra, con Aristofane in primis), ma anche disvelarsi pulsioni profonde (in quanto la psiche nasce ben prima della psicanalisi, e solo per fare l’esempio più ovvio, il complesso edipico ha radici che vanno aldilà delle spiegazioni freudiane).

Teatro Necessario Dialoghi Del Cuscino

Eccoci quindi qui, al Rasi, in questi nostri tentativi di comprendere il teatro, per incontrare Marcella Nonni – raggiunta poi da Alessandro Argnani – condirettori di una Stagione teatrale ravennate che promette fin dall’apertura (stasera andrà in scena Made in Ilva di Instabili Vaganti) di mettere i piedi nel piatto perché, come afferma Argnani con semplicità: «È questo il teatro che conosco e nel quale mi riconosco. Un teatro che fa i conti con le contraddizioni dei nostri giorni, che vuole dialogare con la città e i suoi cittadini. E la nostra Stagione non può che essere un mosaico che offre agli spettatori le tante tessere che compongono questa realtà». E aggiunge Nonni: «Fin da quando abbiamo accettato questa sfida teatrale, negli anni Novanta, avevamo l’idea di entrare in un luogo cercando di abitarlo, senza però accomodarci in un ruolo e assopire la mente!».
Eppure il teatro – tout-court – che nasce appunto dalla necessità – creativa e di confronto – oggi fatica a rivendicare la propria dimensione. In parte perché fagocitato da istanze istituzionali che impongono matrimoni forzati. Pensiamo all’eccellente (ed emozionante) progetto del Teatro dell’Orsa, Argonauti, inserito l’anno scorso in MigrArti – accanto a lavori dove l’elemento teatrale sembrava una foglia di fico. E in parte perché gli autori che avrebbero qualcosa da dire, a volte, scadono nel pedagogico con un piglio più vicino al fervore del predicatore televisivo che al linguaggio proprio del teatro – rito laico per eccellenza. Come conciliare, quindi, contenuto e contenitore? Partiamo da due titoli in Stagione, I Shakespeare, I Banquo, I Caliban di Tim Crouch, sul dualismo vittima/carnefice e sul tema del colonialismo; e Katër i radës. Il naufragio di Koreja, storia di una motovedetta albanese affondata con decine di migranti nel 1997. Argnani spiega: «Da un lato abbiamo Fabrizio Arcuri, un regista capace di partire da opere che ritraggono il panorama attuale, arrivando a punte di assoluta eccellenza stilistica. E dall’altro Koreja che, mettendo in scena il libretto di Alessandro Leogrande – un intellettuale di cui sentiamo la mancanza – è capace di interrogare gli spettatori, vietando loro di restarsene comodamente seduti in poltrona, ricreando quel senso di comunità che, da solo, è in grado di mostrare a noi stessi come sia possibile non rassegnarsi all’abbrutimento. Il naufragio andrà in scena all’Alighieri, il teatro dell’opera di Ravenna, perché il nostro intento mosaicale è anche quello di mischiare i vari generi di pubblico, creando comunità di spettatori diversi». E aggiunge Nonni: «Proprio nel solco del dialogo tra spettatori e artisti, va notato che Koreja aveva presentato questo lavoro in Biennale, ma a Ravenna è stato chiesto alla Compagnia di abitare l’Alighieri, tenendo conto – nell’allestimento – dell’esigenza di conciliare uno spazio teatrale di tradizione con una dimensione artista/spettatore più intima, in grado di restituire storie ma anche archetipi. E vorrei anche aggiungere che in Stagione ci sarà un testo di Caryl Churchill, Settimo Cielo, che tratta sempre di colonialismo, ed è prodotto dall’Angelo Mai, una realtà teatrale sulla barricata, che resiste alle continue minacce di sgombero, e che occorre difendere perché s’impegna proprio in un teatro necessario».

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Eppure il fraintendimento tra teatro contemporaneo, necessario, e socio/pedagogico è all’ordine del giorno e si fatica – anche a livello critico e accademico – ad abbattere quelle distinzioni proprie della carta che non hanno alcuna applicazione nel lavoro reale in teatro ma che sembrano rassicurare spettatori e studiosi, costringendo l’esperienziale in confini precisi, ossia tentando di dare forma fissa a un qualcosa che, per sua natura, dovrebbe essere considerato fluido. Argnani racconta: «Il teatro deve essere un qualcosa che non conosco, che mi turba e mi sorprende. Un rito magico che avviene in un luogo e un momento precisi, ma perché avvenga in un qui e ora deve essere capace di scorticare la vita. È la continua ricerca di un quid che non riusciremo mai a raggiungere. Teatro sociale è un’etichetta che serve a chi la dà, ma che non fa bene al movimento teatrale perché rischia di declassare un’opera in serie B. Può sembrare banale quanto affermo ma il teatro è sempre sociale, perché esprime e si riconosce in una società». E Nonni solleva un’altra questione: «È bizzarro come si sia circondati da organizzatori e direttori di teatro che molte volte tendono a scegliere il titolo considerato “sicuro”, il nome noto, e mai a rimescolare le carte. Anche per questo cerchiamo di coinvolgere gli spettatori innescando inquietudine e curiosità intorno alle scelte che facciamo». E Argnani aggiunge, proprio riguardo alle scelte produttive delle Albe e al rapporto teatro/spettatori: «Ormai stiamo entrando nella seconda tappa della nostra messa in vita della Divina Commedia e in Stagione avremo Fedeli d’amore. Polittico in sette quadri per Dante Alighieri. Come nel 2017 coinvolgeremo nel lavoro l’intera cittadinanza. La cosa che vorrei sottolineare è che già la prima tappa, l’Inferno, ci ha profondamente segnati come Compagnia, perché abbiamo toccato con mano l’impegno dei cittadini comuni, che hanno partecipato al progetto per ben 34 serate, affidandosi totalmente alle nostre guide, Marco ed Ermanna, per portare avanti un’azione che non definirei “sociale”, bensì propriamente teatrale. Siamo riusciti a ricostituire una comunità teatrale come nell’antica Grecia o un teatro di massa nella Russia del primo Novecento». «E i cittadini, a loro volta», sottolinea Nonni: «hanno dimostrato di avere effettivamente fame di teatro. Ad esempio, ci hanno chiesto di organizzare degli incontri in alcune abitazioni per parlare del nostro lavoro». Ma verifichiamo davvero se il pubblico – e quale pubblico – abbia voglia di rispondere a questa discesa in campo.

Sono circa le 20.30 quando arriviamo nella zona delle Bassette. Made in Ilva non andrà in scena al Teatro Rasi, bensì nella sede di una società che si occupa normalmente di sicurezza – anche in teatro. Ci troviamo nella periferia industriale di Ravenna: un ampio cortile in cemento e un capannone di forma rettangolare ci accolgono con sobrietà. Verrebbe da chiedersi quanti cittadini avranno voglia di spingersi fino in periferia per uno spettacolo che promette di affrontare temi ben poco cool, quali il lavoro in fabbrica, la salute di una città meridionale, la sicurezza degli operai – quelle tute blu che giornalisti e politici si ostinano a dire estinte come i dinosauri. Marcella Nonni ci spiega la scelta comune delle Albe e di Instabili Vaganti di mettere in scena qui questo spettacolo: «Siamo partiti dall’esperienza di Nicola e Anna Dora per capire dove era stato rappresentato in questi anni e, successivamente, abbiamo iniziato a ragionare con un imprenditore locale che si occupa di sicurezza, lavora anche con noi, ed è una persona curiosa che frequenta il teatro da spettatore: una chiusura del cerchio pressoché perfetta. Ma non solo, perché questo imprenditore, che è il nostro ospite di stasera, aveva anche il desiderio di invitare le persone che lavorano con lui a condividere una situazione teatrale. Da queste diverse esigenze, che si sono incontrate felicemente, è nata la possibilità di allestire in questo luogo Made in Ilva». «Del resto, una tra le nostre finalità», ricorda Argnani: «è quella di portare il teatro alle persone. La non-scuola ne è l’esempio più lampante e coinvolge alunni, insegnanti, istituti in tutta Italia da 25 anni a questa parte. Noi vogliamo fare del teatro un luogo da vivere quotidianamente, cercando anche nei momenti in cui non c’è spettacolo di ospitare comunque la comunità. D’altra parte, la nostra responsabilità è anche quella di guardare a Ravenna come a un insieme di luoghi dove debuttare. È un incontro importante, quello che si realizza oggi, sia per i lavoratori che vivono questo spazio tutti i giorni, sia per un’opera che si confronta con un luogo e spettatori molto diversi».

Ed eccoci qui: un emiciclo di sedie posizionate di fronte alla porta del capannone. Nemmeno una resterà vuota – con spettatori dai 6 agli 80 anni. Ci chiediamo come trasformeranno Instabili Vaganti, in teatro, la realtà dell’Ilva. Anzi, la duplice realtà dello stabilimento tarantino. Da una parte l’accordo con Mittel confermato con il referendum dei lavoratori proprio oggi, che garantisce continuità all’impresa (e, quindi, il salario e la sussistenza di migliaia di famiglie oltre alla garanzia del mantenimento dell’Articolo 18, soprattutto come segno del rispetto che si deve ai lavoratori) ma ne sancisce anche l’immunità penale – ossia l’impunità – in caso trasgredisca a norme di tutela dell’ambiente, della salute e dell’incolumità pubblica (e, quindi, dove andrà a finire il rispetto di cui sopra?); e dall’altro, la società civile, che giudica alquanto fumosi gli impegni di Mittel per la salvaguardia dell’ambiente e la salute dei cittadini di Taranto – che da anni, in maggioranza (visti anche i risultati delle recenti elezioni politiche), si battevano per la chiusura dello stabilimento. Come tradurranno, Instabili Vaganti, la cruda realtà dei fatti e l’aspirazione umanissima a un futuro diverso per una terra e le persone che la abitano? Come renderanno – a livello scenico – l’alienazione del lavoro in fabbrica e il sogno forse infantile di un cielo blu? Là dove la politica non sembra più in grado di disegnare nuovi orizzonti, di immaginarsi stili di vita altri, di realizzare utopie condivise, cosa può fare il teatro?

Il rispecchiamento non è mimesi. Il teatro lo insegna. Si parte da un linguaggio che è quello della nostra quotidianità fatta di parole ma soprattutto di azioni, atteggiamenti, espressioni, e lo si trasforma in altro: una crisalide dell’insetto originale – fragile e altrettanto perfetta ma dove non scorre più il sangue. Solo l’attore, in scena, può ripompare sangue nelle vene del teatro e ridare vita alla crisalide per il tempo – sfuggente come il battito d’ali d’una farfalla – di una performance. Come sempre nei lavori di Instabili Vaganti (che ormai seguiamo da alcuni anni), la prima caratteristica che riconosciamo è la loro capacità di fondere poesia e prosa in un pastiche ricco di rimandi – in questo caso, la frase colta nella quotidianità di un operaio delle acciaierie Ilva di Taranto (o di un’altra, qualunque, tuta blu che rappresenta quella classe operaia che continua ad aspirare al paradiso), e alcuni brani di un poeta/operaio, Luigi di Ruscio. Il risultato, già nella prima scena, inquadra il presente ma porta lontano. Di fronte a noi l’operaio con l’eskimo, ma anche un simbolo infantile come Cappuccetto Rosso, la violenza della produzione e il sogno proprio del bambino di cosa farà da grande. La ricchezza dell’accostamento iconografico favorisce i rimandi personali – volontariamente o meno: da Le Nuvole di De André a un vecchio video di Kate Bush, dove un padre e suo figlio tentavano di “rompere le nuvole”. In questo modo bastano pochi minuti per sentirsi parte di una storia che, in fondo, appartiene a tutti.

Nicola Pianzola sembra, nel frattempo, sdoppiarsi. Da una parte diventa egli stesso macchina, incarnando in un corpo umano i processi della produzione, restituendo il freddo dell’acciaio (grazie anche a un ottimo uso delle luci) o il movimento imperturbabile e continuo del nastro trasportatore o, ancora, rinchiudendosi in una specie di gabbia/scala e restituendo fisicamente la sensazione dello spazio costrittivo di un’acciaieria – dove ogni movimento deve essere calcolato ma è anche sorvegliato con precisione. E, d’altro canto, come un Everyman (personaggio che ritorna nei lavori di Instabili Vaganti) dà corpo e voce all’oppressione del caporeparto, alle false rassicurazioni della dirigenza ma soprattutto alla paura dell’operaio – costretto a “produrre per vivere e a sopravvivere per continuare ad aumentare la produzione”. La voce di Pianzola, dal vivo, si sovrappone ai canti di Anna Dora Dorno, e l’accelerazione e le volute forzature conducono a una serie di climax che immergono sempre più lo spettatore in quell’universo nevrotico e fagocitante che può essere la fabbrica – e che Volonté, nel ruolo di Lulù Massa, riassumeva in una frase che resta tutt’oggi emblematica: «Io sono come una puleggia, come un bullone… io sono una pompa! E non c’ho più la forza di aggiustarla, la pompa, adesso!».
Ma l’Everyman di Pianzola si rialza: gli basta un raggio di sole che riesce a farsi strada nel capannone (una tra le scene più emozionanti, con quella iniziale dell’incubo dell’operaio – visivamente quasi agnello sacrificale sul banchetto del Capitale di marxiana memoria) per librarsi come un angelo e volare via, finalmente libero. Ma, ovviamente, è solo un sogno. La realtà resta la fabbrica, quelle architetture alla Piranesi che, proiettate all’interno del capannone della Nuova OLP, ne aumentano la profondità restituendo il senso di sgomento che l’uomo, nella sua carnalità fragile, prova di fronte alla macchina – non tanto come strumento di ferro e bulloni quanto come ingranaggio produttivo che stritola diritti e aspirazioni, che ricatta sui bisogni in nome di quelle magnifiche sorti e progressive che già Leopardi denunciava, derideva, di certo paventava.
Dopo un autentico tour-de-force che Pianzola regge fino all’ultima battuta, l’Everyman torna bambino, alle nuvole, al tempo delle favole e dei sogni, al desiderio di plasmare un mondo a misura d’uomo. Made in Ilva sembra lasciarci con una nota forse di speranza e quando il sipario – che non c’è – si chiude, il pubblico resta a lungo seduto. Anche dopo gli applausi fatica ad allontanarsi da un luogo dove ha vissuto un’esperienza, indugia in attesa di una spiegazione, di quella risposta, profondamente umana, a bisogni altrettanto umani.

La catarsi come purificazione, riconciliazione ma soprattutto presa di coscienza e superamento – di problematiche individuali e collettive. Ancor prima del logos, del dio/padre, del dio/parola, uomini e donne vi giungevano attraverso i rituali, il canto, la danza – dionisiaci, tribali. Il bisogno di ricreare un cerchio attorno al fuoco per sentirsi meno soli di fronte all’incomprensibile (come nell’esperienziale Morte di Zarathustra di Teatro Akropolis). Aldilà dei codici e degli strumenti per decriptarli, il teatro resta un linguaggio radicalmente umano nel suo farsi, nel suo compartecipare la nostra comune condizione. Un teatro semplicemente necessario in questo nostro rivendicare, come Vittorio Arrigoni: stay human.

Lo spettacolo è andato in scena nell’ambito della Stagione dei Teatri. Teatri Alighieri / Teatro Rasi 2018/19:
Nuova OLP
via M. Monti, 38 – Ravenna
venerdì 14 settembre, ore 21.00

Instabili Vaganti presentano:
Made in Ilva
L’eremita contemporaneo
regia Anna Dora Dorno
con Nicola Pianzola
canti originali e voce dal vivo Anna Dora Dorno
musiche Riccardo Nanni
oggetti di scena Nicoletta Casali
scene e disegno luci Anna Dora Dorno
video Nicola Pianzola
produzione Instabili Vaganti con il sostegno di Spazio OFF di Trento
ispirato al diario di un operaio e alle testimonianze di lavoratori dell’Ilva di Taranto, e tratto dai testi di Luigi di Ruscio e Peter Shneider