Accettarsi sinceramente per cambiare veramente

teatro-orologio-roma-80x80In fondo agli occhi, la drammaturgia audace e polisemica della Compagnia Berardi Casolari, per l’occasione diretta dal maestro César Brie, al Teatro dell’Orologio di Roma.

Un chiaro incipit verbale (il coro autoreferenziale «cieco di merda») unito a una gestualità sfrontatamente spontanea e volgare. Un dirigersi chiari e diretti al bersaglio critico rimanendo in equilibrio sul margine che separa la serietà dal senso comune e che distingue la verità, a volte banale nella sua evidenza, dalla retorica, forse più convincente rispetto alla prima, ma sempre vuota e superficiale. Un segnare il solco tra ciò che si vede (o si crede di vedere) e ciò che è tanto reale quanto volontariamente celato alla vista: ovvero che «uno stronzo in un mare di merda non si vede». In fondo agli occhi è uno spettacolo sulla caducità di una Italia che ci abbandona perché abbiamo smesso di volerle bene, inno ad accettarsi non passivamente perché le debolezze che ognuno vorrebbe eliminare (come la cecità per un ragazzo che fino ai vent’anni ha visto il mondo) segnano in realtà il nostro esserci come uniche e irreplicabili impronte digitali.

Attraverso il coinvolgimento di un pubblico ben disposto a partecipare ai richiami di un Berardi in stato di grazia, lo spettacolo offre in maniera tragicomica quei rituali cui si sottopongono un disabile e chi di lui deve/vuole occuparsi (per amore o dovere). Ma accanto a questa dimensione immediata, In fondo agli occhi presenta momenti simbolicamente tanto semplici quanto pregnanti, come l’identità debole di Tiresia rappresentata da Italia che lo veste con la maglia della nazionale, e riferimenti culturali imponenti e discreti, come la filosofia-cecità che nega il sole di Victor Hugo e il desiderio di fuggire da tutto ciò che aliena da se stessi di Fernando Pessoa.

Una complessità che struttura un messaggio entro il limes del politically correct, ma allo stesso tempo straordinariamente credibile per la concretezza con cui viene drammaturgicamente (rap)presentato: la gaia accettazione di ciò che il destino ci ha dato e che costituisce tanto quello che siamo quanto ciò da cui possiamo partire per realizzare i nostri sogni ( «io non ti volevo conoscere […] vorrei che tu mi riconoscessi», dirà con inquietudine il protagonista).

Una drammaturgia audace nel concepimento, capace di costruirsi senza alcun timore sulla contemporaneità. Un contesto di vita, quell’oggi narrato da In fondo agli occhi per quasi un’ora e mezza, che gli addetti del settore sanno benissimo essere a forte e strutturale rischio di derive nel didascalico (dunque banale), nel retorico (dunque noioso) o nell’intellettuastico (dunque incomprensibile ai più), ma che l’incontro tra il regista argentino César Brie e il duo Berardi Casolari evita magistralmente in virtù di un reciproco feeling in grado, a tratti, di mettere in crisi la percezione che ciò che sta andando sul palco sia vita vera, piuttosto che semplice teatro.

Una drammaturgia coraggiosa, dicevamo, ma anche polisemica, capace di ambire a diverse chiavi interpretative e di proporre in maniera efficace una ambivalenza semantica traducibile come ampiezza e ricchezza di prospettive. Una potenza infusa allo spettacolo tanto dalla regia, che mette gli attori nella condizione di liberare senza costrizione scenica il proprio talento, quanto dalla recitazione con il riuscito bilanciamento tra le debordanti doti istrioniche di Gianfranco Berardi e la femminile capacità di Gabriella Casolari di mantenersi convincentemente in bilico tra l’essere madre e l’esser compagna.
Anche il sacrificio estetico dei costumi, della scenografia e del suono (espliciti e ridondanti, per esempio, per la scelta dei nomi dei personaggi, dell’insegna Bar Italia, della maglietta azzurra e del Va’ pensiero) sembrano funzionali alla volontà di lasciare in fondo agli occhi l’impressione che la realtà non sia come ci viene mostrata/presentata/cantata.

Esiste, difatti, una verità oltre l’illusione che l’Italia debba essere migliore e possa cambiare senza il contributo attivo di ognuno: la verità che di essa, del modo in cui la viviamo e la concepiamo, bisognerebbe riconoscersi artefici consapevoli e non spettatori, rendersi conto che privarsi delle proprie responsabilità non farebbe altro che dare fondamento all’autorità di turno, a un potere che verrebbe così liberato dalla necessità morale di legittimarsi per quello che fa e per come lo fa.

Per raccontare la ricchezza di In fondo agli occhi basterebbe prendere a esempio proprio la cecità, tema su cui lo stesso attore si sofferma a margine dello spettacolo con il numeroso gruppo di UNDER 25 che segue la stagione di DOMINIO PUBBLICO e che va al di là della presente e ineliminabile dimensione autobiografica e dei numerosi rimandi che il teatro offre sull’argomento, fin dalla sua origine greca, associandolo spesso alla capacità della veggenza (Tiresia, infatti, il personaggio interpretato da Berardi, sarebbe stato privato dagli dèi della vista degli occhi, ma “dotato” di quella del futuro)

Pensata come metafora, la cecità richiama idealmente e, soprattutto, concretamente la condizione di minorità in cui l’essere umano si trova a esistere ogni qual volta si fa forte della propria ignoranza. Illuminante in tal senso l’interista Cinto con il suo razzismo tanto estremo quanto abituale da parte del cittadino-tifoso medio italiano. Da sempre, infatti, i cosiddetti lumi della ragione combattono una strenua lotta contro quella superstizione secondo la quale sarebbe possibile continuare a ballare mentre il Titanic affonda. Una iattura che porta oggi – quasi coscientemente – ad avversare in maniera schizofrenica e autolesionistica il proprio stesso interesse non facendo nulla a favore di quel contesto d’esistenza (l’Italia, la Terra) nel quale ci si trova a vivere e al quale sarebbe opportuno dare un contributo per costruire – tutti insieme – le condizioni per un mondo migliore.

Con In fondo agli occhi, allora, identifichiamo la figura dello spirito di una condizione fisica e mentale, l’espediente teatrale capace di offrire una visione vera e non inquinata della realtà, la metafora del non farsi abbagliare dalle luci patinate del sistema con cui il reale viene mostrato. Un make up attraverso il quale – giusto per fare un esempio di incredibile, palese e comune ipocrisia –  speakers e immagini televisive di liberazione ed euforia completano la frase fare la guerra con per fare la pace. Un trucco banale che mortifica la vita oltre che ogni intelligenza e che pretenderebbe di far sparire concretamente la morte, occultandola da ogni immaginario simbolico, nonché ogni sua modalità di attuazione che porta sempre distruzione e miseria (ancora oggi in gran parte del mondo).
Uno scandalo – stupido perché dichiaratamente falso – proposto quotidianamente nei termini e nella propaganda dei bamboccioni, dello spread finanziario e delle “bombe intelligenti” (altro drammatico ossimoro), prepotentemente imposto da una industria culturale che narra non tanto l’obbligo della bellezza a tutti i costi, identificandola con gioventù, magrezza e ostentazione di status symbol commerciali (la tanto esaltata Apple al pari della vituperata Coca Cola), quanto la necessità di conformarsi a tali ideali, pena l’esclusione dall’essere accettati a se stessi oltre che dalla società.

Rispetto a questa mostruosa impalcatura sovrastrutturale che racconta di un paese dove la crisi continua a imperversare (rimane calzante l’esempio del Titanic), ma tutto andrà comunque bene (ovviamente per i soliti noti), l’Italia messa in scena da Berardi e Casolari è il luogo dove ogni giorno viene raccontato che sarebbe necessario riprendere a consumare per crescere, e quindi tagliare (stato sociale, istruzione, sanità, ma non spese militare, della politica e corruzione). Una banalità facilmente contestabile alla radice (ideologica) e da cui nasce quel modus operandi ben noto a noi del Belpaese. Quel modo di fare che Berardi mortifica straordinariamente mettendo in prima linea la propria esperienza: l’arte del lamento, ovvero quando l’inerzia diventa abitudine e, di conseguenza, non va bene praticamente nulla, il caldo o il freddo, la siccità o la pioggia, essere giovani o anziani, single o sposati. Ecco che di fronte al sentirsi costretti all’interno di un tunnel senza uscita, lo spettacolo propone una formula magica nella sua positiva scontatezza: arredalo, il tunnel, perché la vita che viviamo va costruita con quello che si è e partendo dall’accettazione della propria condizione (per Berardi – Teresia, la cecità), unico modo per poter andare avanti e (almeno provare a) vivere la pienezza del proprio essere.

In fondo agli occhi nonostante il poetico titolo e la nostra lunga dissertazione non nasce, probabilmente, con particolari ambizioni di profondità filosofica. Tutt’altro. Ma di fatto propone con sguardo sincero nella sua soggettività l’esperienza di uno spaccato di vita vera, la cui complessità è per forza di cose inarrivabile per ogni riflessione concettuale.

Straordinario.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro dell’Orologio

via dei Filippini 17/a
fino a domenica 17 novembre
orari: ore 21.00, domenica ore 17.30

Compagnia Berardi Casolari presenta
In fondo agli occhi
di Gianfranco Berardi,Gabriella Casolari
regia César Brie
luci e audio Andrea Bracconi
elementi scenici Franco Casini Roberto Spinaci
collaborazione musicale Giancarlo Pagliara
organizzazione Carlotta Ghizzoni
con il sostegno di Teatro Stabile di Calabria