Era un’esperienza che ancora mi mancava: in passato ero stato in commissione per festival di teatro della scuola (una quantità) o dell’università, per qualche premio giovanile di poesia, per un concorso per la giovane critica; ma ancora non mi era capitato di leggere, tutti di seguito, una quarantina di copioni.

A priori, il mio lavoro non sembrava così lontano dalla mia esperienza di commissario o presidente nelle commissioni di maturità, anche se qui, in chi scriveva, c’era la pretesa di una creazione artistica. Ma un’altra differenza si è rivelata fondamentale: i testi non erano manoscritti, ma a stampa. Sembrerebbe un fatto secondario, ma è invece proprio partendo da qui che desidero condividere col lettore qualche riflessione.
Oggi è a disposizione di quasi tutti un PC, e possiamo produrre – o, almeno, ne abbiamo l’illusione – delle pagine a stampa, come quelle dei libri veri. Ma, in effetti, pochi sanno usare davvero quello strumento. Intendo dire che pochi conoscono le fondamentali, basilari regole tipografiche: quelle che regolano gli spazi fra una parola e l’altra, fra le parole e i segni di interpunzione, le parentesi.
Confesso che mi metteva a disagio trovare delle virgole appese a capo di riga, delle parentesi che si aprivano sul vuoto, delle righe incongruamente rarefatte: il PC, poverino, obbedisce al suo software, che segue certe regole, e se queste vengono disattese, va anche lui nel pallone.
Ma non erano queste lo sole trasgressioni in cui mi sono imbattuto.
Finché eravamo abituati a scrivere a mano, nessuno, se non attore o speaker, si preoccupava della differenza fra un accento acuto e uno grave: bastava mettere un baffo sulla lettera “e” quando è verbo, e non farlo quando è congiunzione. Invece quei testi erano costellati di “é”, voce del verbo essere, e di “perchè”. Di ciò è forse responsabile la nostra parlata settentrionale, così poco attenta alla corretta pronuncia delle “e” (e non parliamo delle “o”). Ma va detto che ho trovato la “e”, voce del verbo essere, con l’accento acuto, sulle insegne poste sopra le casse di una grande catena di supermercati e, addirittura, in una frase che esortava alla lettura, sulle sedie pieghevoli della sala conferenze di una grande casa editrice milanese.
E la punteggiatura? Ohimè! Le norme che, in italiano, la regolano non sono molte, ed anche abbastanza semplici; eppure erano generalmente disattese. E il punto e virgola? Ormai è un oggetto in estinzione: sta ancor peggio del congiuntivo.
Ovviamente, ho trovato anche in molti testi scritti a regola d’arte; ma qui non si trattava di un campione generico, bensì di una élite, di gente che pretende, o almeno crede, di saper scrivere, e immagina di poter pubblicare.
Il fatto si è che, ormai, sembrano esserci più soggetti che scrivono, rispetto a quanti siano disposti a leggerli. E questo è, forse, anche uno dei motivi della crisi dell’editoria.

Lumpatius Vagabundus