Un ricordo della breve ma intensa stagione nella quale ho avuto l’opportunità e il privilegio di lavorare accanto a un uomo e un artista che, per mezzo secolo, è stato fra i protagonisti del teatro italiano.

L’11 agosto, a Catania, Lamberto Puggelli se n’è andato, all’età di 75 anni.
Altri ne illustreranno la carriera e ne tracceranno il profilo professionale ed artistico. Io desidero solo parlare del rapporto che, in anni ormai lontani, mi ha legato a un amico cui devo molto.
Lamberto aveva ha solo cinque anni più di me ma, quando ci siamo incontrati, se ricordo bene nell’autunno del ’74, lui era già un regista affermato. Mi diceva che considerava suoi maestri Giorgio Strehler, di cui era stato attore ed aiuto regista, e Giancarlo Menotti, col quale aveva lavorato al Festival dei due Mondi.
A quei tempi io, poco più che trentenne, stavo cercando di realizzare un sogno che per tanto tempo avevo tenuto nel cassetto: fare teatro. Avevo avuto la ventura di seguire, come assistente, una regia di Orazio Costa Giovangigli, e desideravo dare un seguito a quell’esperienza. Gigi Lunari, allora dramaturgo del Piccolo, mi aveva indirizzato a Lamberto Puggelli, che aveva appena assunto la direzione del teatro San Babila e metteva in scena Maschere Nude, un collage di tre atti unici pirandelliani, che gli sarebbe valso il premio Pirandello.
Se con Costa avevo avuto un approccio teatrale di grande spessore teoretico (il famoso “Metodo Costa”), con Puggelli ero riuscito a sporcarmi le mani, lavorando a fianco di attori importanti – ormai quasi tutti scomparsi – come Gianni Santuccio, Mario Maranzana, Marisa Minelli, Arnoldo Foà.
Lamberto trattava con paziente benevolenza la mia ignoranza teatrale: mi insegnava il mestiere nelle sue pieghe quotidiane, nei suoi aspetti minimali, ma non per questo meno importanti. Ed io ero fiero di poterlo ricambiare con contributi più umilmente tecnici, utilizzando la mia formazione scientifica, come calcolare il peso di una lastra di plexiglas che doveva essere calata dalla graticcia, o di risolvere, con una semplice applicazione della legge di Ohm, un problema di luci (si era ai tempi delle prime, bizzose consolle elettroniche). Poi gli avevo fatto da assistente per Il matrimonio della Lena, di Bertolazzi, con sua moglie, Marisa Minelli, di cui ricordo una frase: «Le cose più belle del mondo sono l’amore e il teatro».
Puggelli è stato anche molto attivo nell’ambito della lirica, e mi aveva coinvolto in una edizione de La fanciulla del West, al Verdi di Trieste. Anche in quell’occasione mi aveva erudito sulle specifiche esigenze – e sulle paturnie – dei cantanti e dei coristi, non meno cogenti, ma diverse, da quelle degli attori. E quando un anno dopo, nel ’78, l’allestimento era stato ripreso dal Teatro Grande di Brescia e al Donizzetti di Bergamo, mi aveva affidato la responsabilità di rimetterlo in piedi. Lui era impegnato a Roma, per Il piacere dell’onestà, con Alberto Lionello ed Erica Blanc, e di notte passavo con lui ore al telefono per aggiornarlo sulle prove, e per chiederli consigli per risolvere i problemi che si erano presentati. Sarebbe arrivato solo all’antigenerale, e ne ero terrorizzato; ma lui mi aveva rassicurato: «Non ti preoccupare: anche se ci saranno degli errori, li sistemerò: io sostengo sempre i miei uomini».
Mi ero consigliato con lui prima di decidere di abbandonare la mia esperienza teatrale, ma avevo continuato a seguire le prove di molte sue regie, a volte intervenendo con contributi banali, che accettava sempre: la corretta pronuncia di un nome russo; un disegno geometrico che Franca Nuti, nel ruolo di Ipazia, poteva tracciare sulla sabbia.
Quando avevo cominciato ad occuparmi dei laboratori teatrali nelle scuole, aveva coinvolto classi intere, come figuranti, in una bella edizione de Il Conte di Carmagnola, al Piccolo Teatro Studio. E oggi, che faccio il recensore teatrale, mi rendo conto di quanti strumenti importanti per il mio lavoro ho acquisito da lui.
L’ultima volta l’ho incontrato nel dicembre scorso al Regio di Torino, che apriva la stagione con la riproposta di una sua celebrata regia dell’Andrea Chenier. Sapevo che era malato, e avevo sentito la sua bella voce baritonale sempre più accartocciarsi, ma quando lo vidi, sorretto da due persone, uscire in proscenio per prendere gli applausi, ne ebbi una stretta al cuore.
Pur non essendo ormai più in grado di articolare parola, Lamberto aveva voluto presenziare a tutte le prove, durante le quali i suoi assistenti, memoria storica dell’allestimento, rendevano operativi sotto il suo controllo gli appunti di regia. Gli avevo portato i saluti di una vecchia amica comune, chiedendogli se la ricordasse: mi aveva risposto di sì con un segno del dito, sorridendomi con quel suo sorriso, fra il bonario e il fatalista, che avevo visto anche in passato sul suo volto, nei momenti di difficoltà. Aveva impiegato quasi un minuto per tracciare il suo autografo sul libretto dello Chenier.
Il regista – con Lamberto, ne avevamo parlato diverse volte – scrive sulla sabbia.
A testimonianza del suo lavoro rimarranno le recensioni, le tesi di laurea; qualche video. per quello che vale questo medium, per restituire l’impalpabile, irripetibile realtà del teatro. I suoi discepoli, spero, ne raccoglieranno l’eredità e ne svilupperanno la poetica.
Io, che pur in posizione defilata sono fiero di annoverarmi in quel numero, voglio ricordare un uomo buono e generoso che, con coraggio e determinazione, ha voluto e saputo combattere fino alla fine.